Dario Bocca, la Repubblica 24/7/2011; Nello Ajello, la Repubblica 24/7/2011, 24 luglio 2011
QUANDO L’ITALIA SI BUTTO’ A DESTRA
(due articoli) -
La guida a sinistra è per molti un´eccentrica abitudine britannica o un antico retaggio dell´età coloniale. Anche nell´Italia unita, però, si guidava a sinistra, anzi si guidava a volte a sinistra e a volte a destra, cambiando mano là dove i cartelli, se c´erano, lo indicavano come un obbligo per tutti i conducenti. Esattamente cent´anni fa il Regio decreto n. 416 del 28 luglio 1901 confermò il diritto di ogni provincia di redigere il proprio codice stradale, imporre o abrogare i limiti di velocità e scegliere la direzione di marcia dei veicoli. Gli automobilisti, già abituati a passare da un lato della carreggiata all´altro anche per brevi viaggi, non protestarono perché il traffico era modesto e le automobili si aprivano la strada con pittoresche trombe.
Tutto cambiò nel 1915, con la Prima guerra mondiale, quando il Comando supremo impose la guida a sinistra nelle zone di operazione. A Caporetto, poco dopo, si verificò un ingorgo senza precedenti che costò la vita a migliaia di soldati intrappolati nelle strette valli alpine e decimati dalle artiglierie nemiche. Le colonne in ritirata marciavano a sinistra, i rinforzi provenienti da sud tenevano la destra. Era la prima volta che l´Italia si accorgeva di un problema: le regole del suo traffico stradale erano incerte, incoerenti, persino imprevedibili. Ma se ne discusse poco, nel 1917 ben altri eventi riempirono le pagine (del resto censurate) dei giornali e il cuore stesso degli italiani.
Fu Mussolini, cinque anni più tardi, a prendere la definitiva e totalitaria decisione di far guidare tutti gli italiani, naturalmente, a destra. Nel dopoguerra, infatti, tornata una relativa calma amministrativa, si provò a capire e porre rimedio al problema. Il governo chiese alle prefetture informazioni dettagliate sul traffico e le trasmise a Mussolini, appena nominato Presidente del Consiglio, che le trovò a dir poco sconcertanti. Nell´aprile del 1923, per esempio, nella Venezia tridentina si guidava tenendo la destra; dopo la dichiarazione di guerra del maggio 1915, tuttavia, l´esercito aveva obbligato gli autisti a passare alla mano sinistra. Il provvedimento fu revocato nel novembre del 1918 ma per mesi ancora si verificarono incidenti, in particolare agli incroci e nelle aree urbane regnava una «grande confusione». Un funzionario spiegò che l´esercito aveva imposto quel «decreto di mano sinistra» perché le auto e i camion militari erano dotati di un freno di emergenza posto all´esterno delle vetture e azionato dalla mano destra dell´autista, dunque anche il posto di guida era a destra. Poiché le strade di montagna erano strette, i conducenti temevano di sbilanciare il carico verso i dirupi o urtare i mezzi che procedevano in direzione opposta. Tutti preferivano scorgere i pericoli a distanza e trovarsi sempre al centro della carreggiata. E ancora. A Vicenza si teneva la mano destra, ma nella vicina provincia di Verona si teneva la sinistra. Interrogato dal ministero il prefetto spiegò che la decisione era stata presa nel 1907 allo scopo di facilitare l´installazione delle tramvie. Peccato che, a distanza di quindici anni, ancora la popolazione non osservava scrupolosamente l´ordinanza e si verificavano continui incidenti; la soluzione, a giudizio del prefetto, era senz´altro di «imporre la mano sinistra» a tutto il Paese. A Ravenna si teneva la destra ma, lungo la strada per Porto Corsini, «per antica consuetudine» si procedeva a mano sinistra. A Bergamo si teneva la sinistra, a Brescia la destra. Nella provincia di Como si teneva la sinistra ma nei circondari di Varese e Lecco «prevaleva la mano destra».
Se nelle province del nord le regole della guida mutavano in relazione alle ordinanze locali, lo stesso avveniva al sud, anche se con minore frequenza. In alcuni comuni prossimi a Caltanissetta si guidava a sinistra mentre il prefetto di Trapani dichiarò che nella sua città «si era soliti» tenere la destra «ma non sempre»; i conducenti dei carri, infatti, temevano le automobili e al loro approssimarsi si spostavano verso il centro della strada, dunque a sinistra, per evitare che gli animali imbizzarriti uscissero dalla carreggiata. Il problema dei cavalli era diffuso ovunque; anche a Rovigo, al momento di incrociarsi lungo le strade più strette, i veicoli a motore e le carrozze si comportavano in modo differente e imprevedibile - e sempre con grave pericolo per l´incolumità dei viaggiatori.
Ma il caso più penoso era l´Umbria, dove vigeva l´obbligo di tenere la destra sia nei centri abitati sia nelle zone rurali. Le strade erano però «a schiena d´asino» e prive di «spalla di contenimento». Al sopraggiungere di veicoli a motore che intendevano procedere al sorpasso, i guidatori dei carri e delle carrozze si spostavano verso sinistra, dunque verso il centro della strada. Evitavano così di uscire dalla carreggiata e sprofondare con le ruote nella terra o nel fango ma correvano il pericolo di incrociare le auto più veloci provenienti dalla direzione opposta con prevedibili e catastrofiche conseguenze. La provincia di Perugia, per questo motivo, registrava una mortalità particolarmente alta e il prefetto non poté che lamentarsi della diffidenza della popolazione, definita «misoneista», e della caparbietà dei conducenti, incuranti dei rischi e tenacemente legati alle loro abitudini contadine.
Sorda alle istanze della modernità, l´Italia antica dei muli, dei cavalli e dei buoi si misurò nelle grandi città con la nuova Italia delle automobili, dei camion e dei tram. A Milano, Torino, Genova, Spezia, Savona, Parma e anche a Roma si era deciso di guidare a sinistra; alla periferia delle aree urbane, tuttavia, un cartello avvertiva i conducenti di passare senza indugio alla mano destra. Nell´aprile del 1923 un automobilista milanese, fascista della prima ora, finì in ospedale per non avere scorto in tempo quell´avviso; descrisse quindi a Mussolini la sua disavventura scongiurando il Duce di prendere provvedimenti. Il prefetto di Milano replicò sarcastico: «La mano unica si impone ma questa non può essere che la sinistra. Soltanto i cavalli, quando l´uomo dorme, si sposteranno a destra, gli uomini bestemmieranno un po´ di più ma ci penserà la Lega antiblasfema». Il prefetto di Torino la pensava allo stesso modo: «Non sembra conveniente emanare disposizioni contrarie alla guida sul lato sinistro della strada. I pedoni si tengono sulla destra in guisa da scorgere ed evitare i veicoli che procedono in senso opposto». E anche a Roma (come a Viterbo e a Rieti) si guidava a sinistra. Le autorità della capitale si preoccuparono appena il governo, nel settembre del 1923, annunciò di voler imporre finalmente «la mano unica». Il Regio commissario Cremonese, perplesso, inoltrò a Mussolini un allarmato rapporto illustrando il problema. I tram su rotaia viaggiavano a sinistra come in altre città italiane; gli scambi, i cavi elettrici, le porte automatiche, le stazioni e la segnaletica erano stati predisposti per quel lato e la modifica del senso di marcia, se pure tecnicamente possibile, comportava una spesa di almeno sei milioni di lire, una cifra enorme di cui l´amministrazione capitolina non disponeva. Una ulteriore relazione della Commissione straordinaria per Roma propose infine il compromesso più ragionevole: «Molto si è ottenuto nel mondo con la mano unica, che è la mano destra, ma in Italia prevale ancora la promiscuità. Bisognerebbe prevedere un congruo lasso di tempo per il cambiamento della circolazione tramviaria».
E così avvenne. Ad appena un anno dalla Marcia su Roma, dove le auto degli squadristi avevano percorso le vie del centro tenendo la sinistra, Mussolini sottopose al Re un decreto che fu controfirmato il 31 dicembre del 1923. La legge impose al Paese la «mano destra unica» ma accordò la proroga di due anni alle amministrazioni cittadine per approntare la nuova segnaletica e riadattare le tramvie. A molti parlamentari, intellettuali e giornalisti, gelosi delle tradizioni locali, il decreto parve un sopruso e alcuni protestarono, scrissero che si voleva «tagliare una mano agli italiani». Pochi si avvidero che Mussolini, nel fervore del suo primo incarico di governo, avrebbe voluto modificare anche le regole del traffico ferroviario che, dal Piemonte alla Sicilia, viaggiava «all´inglese», tenendo la sinistra. In questo caso Mussolini dovette cedere: i treni sarebbero arrivati in orario ma dal lato sbagliato. Del resto, un´operazione così ambiziosa e totalitaria come l´inversione di marcia sui binari di una nazione intera non fu tentata mai, neppure da Adolf Hitler.
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FEDERALISMO STRADALE -
In principio era il caos. Ecco un incipit adatto, in pratica, a qualunque ricostruzione storica. Ma nel caso della "Mano unica" il termine caos calza a puntino. Se però si desidera una variante, lo stato in cui versava la circolazione in ogni angolo del nostro Paese all´inizio del 1900 potremmo anche chiamarlo «federalismo stradale».
L´Italia del primo Novecento era unita da un mucchietto di decenni. Più giovane ancora (la Fiat era nata nel 1899) era quell´oggetto o meccanismo che si sarebbe chiamato «automobile» e che non mostrava ancora l´attitudine a rivoluzionare i costumi (e a modificare talvolta anche i cervelli), ma la poteva far sospettare. Il binomio fra una nazione e un veicolo entrambi "in fieri" si manifestava, comunque, nella maniera più bizzarra.
Lascia perplessi la lettura del decreto n. 416 del 28 luglio 1901. Esso istituisce il diritto di ciascuna provincia italiana di redigere il proprio codice stradale: limite di velocità o senso di marcia erano considerati fatti locali. I mezzi di trasporto, per lo più trascinati da bestie, si adeguavano alle loro reazioni, non sempre governabili. Traffico limitato, ma rumore tanto. Ci si faceva largo, su strada, come racconta Biocca nell´articolo qui sopra, al suono di «pittoresche trombe».
Allo scoppio della Grande Guerra, l´automobile è come uscita di minorità. Se ne diffonde la mitologia. Albeggia appena il suo imperialismo nella pratica quotidiana della gente, ma si avverte che, assai più in alto, ne deriveranno scelte sociali ed economiche determinanti. In quello che ha di moderno, il conflitto europeo non può prescindere da una notizia: il secolo ventesimo è l´Eldorado della Macchina. Ed ecco nel 1915 ancora un decreto, emesso questa volta dal Comando Supremo. Stabilisce che in zona di operazioni è d´obbligo la guida a sinistra. Caporetto troverà nel disordine del traffico una decisa spinta verso la catastrofe. Perché? Perché le truppe italiane in rotta marciavano a sinistra mentre i rinforzi provenienti dal Sud tenevano la destra. Sembra solo una pennellata applicata a un quadro, nella sua tragicità, assai complesso. Ma emerge anche qui, nell´infortunio delle "mani sbagliate", un segno della perdita della ragione.
Nei giorni di Caporetto c´era comunque ben altro a cui pensare. Sarà più tardi, all´alba degli anni Venti, che la guida a destra e la guida a sinistra assumeranno in Italia il ritmo d´un balletto di intensa comicità, prima che con un decreto emanato il 31 dicembre 1923 Mussolini imponesse, appunto, «la mano unica». Quella destra.
La scelta era stata faticosa. Si era ormai capito che il rapporto uomo-auto era lo stigma del tempo. Oggetto d´amore, più di rado di timore, le quattro ruote viaggiavano, correvano, dominavano. Avevano vinto. Non nutrire un punto di vista sull´impiego della macchina, cioè del massimo feticcio presente sulla Terra, significa non esistere. Consultati dal governo fascista appena insediato, i rappresentanti di capoluoghi tra loro vicini, come Verona e Vicenza, o di province attigue, Como e Lecco, si agitano su opposte barricate. Torino si batte per la sinistra, Milano per la destra. Non manca chi assicura che nella Roma dei Cesari convogli e bighe tenevano la sinistra, come gli inglesi. Altri negano. Se dovessi assegnare un premio alla dichiarazione più sconcertante, sceglierei quella che - documenta ancora Biocca - emise il prefetto di Trapani. Da noi, dichiarò, «si è soliti» tenere la destra. Ma non sempre. Dipende.
Mi viene in mente un´espressione autoironica in uso a Napoli in materia di traffico. La dice lunga su certi stati d´animo locali, ma in realtà diffusi un po´ dappertutto: il verde e il rosso dei semafori non indicano un obbligo o una proibizione, ma emettono «‘nu cunsiglio», un suggerimento. Spetta perciò al cittadino accogliere o respingere l´indicazione cromatica, secondo il suo umore del momento. C´è da dedurne che il legame degli italiani con il libero arbitrio può rasentare l´eroismo o l´umorismo. A volte mostra l´uno e l´altro, abbracciati fra loro e appesi al volante.