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 2011  luglio 25 Lunedì calendario

MORTE DI UNA ROCKSTAR

I sopravvissuti, come Keith Richards, fanno una puntatina periodica nella clinica svizzera e in buona salute si avvicinano ai settanta. Oggi il rock è in mano ai salutisti e gli ultimi irriducibili, come Pete Doherty, sono scesi a più miti consigli. La morte di Amy Winehouse ci riporta agli anni torridi del rock, a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, quando gli artisti vivevano senza rete, sull´esempio di jazzisti-beatniks che erano diventati facili prede di impresari spregiudicati e spacciatori senza scrupoli. Come raccontano le biografie di Charlie Parker, Chet Baker, Janis Joplin e Tim Buckley. Joe Cocker, che l´eroina aveva ridotto a una specie di larva umana, oggi tra un disco e un concerto si rigenera piantando pomodori nel Colorado. Gli eroi della generazione post-grunge, umiliati dal suicidio di Kurt Cobain - anche lui schiavo dell´eroina - sono sciamati in massa da alcolisti anonimi a cinque stelle in Sudafrica o in Arizona. Sting si alimenta solo con prodotti della sua "fattoria" toscana, Moby è vegano, Jovanotti moderatamente vegetariano.
La vita spericolata di Vasco Rossi sta lasciando il posto a una vecchiaia morigerata.
Amy Winehouse era artista superstite di una razza scomparsa. Nelle canzoni e sul palco vomitava il disagio che altri esorcizzano con yoga e meditazione o metabolizzano con l´aiuto di analisti specializzati in stress da vip. Sentiva, come Billie Holiday, che il suo destino era scritto, che non è facile uscire dal tunnel quando a darti sicurezza non bastano amore, successo, lusinghe, denaro, cinque Grammy, centomila fan in adorazione sotto il palco di Glastonbury. Amy non è mai cambiata di una virgola: la polizia mortuaria ha trovato nell´appartamento di Camden il corpo esanime della stessa ragazza sbandata che Amy era prima di diventare una star, posseduta dal sacro fuoco che spinge i grandi talenti verso la luce.
Ricordo il nostro primo incontro. Berlino, 2007. Imbarazzante, quasi traumatico. «È lì dentro, bussi, entri… e buona fortuna», disse la sua segretaria indicando il camerino. Era il momento in cui Amy iniziava, con la stessa velocità, a salire verso le stelle e a sprofondare all´inferno. Lei era lì, diffidente, timida, le braccia così esili da rendere illeggibili i tatuaggi che abbondavano su avambracci e bicipiti. Aveva 23 anni. Parlò poco, ma con estrema franchezza. Raccontò del divorzio dei suoi, il trauma all´origine di bulimia e anoressia, non il più grave dei suoi problemi. Disse dell´adorato papà Mitch, un tassista, l´unico che avesse il potere di dirle quello che doveva o non doveva fare. L´aveva convinta a entrare in una clinica per togliersi il vizio del bere - ancora ignaro del fatto che faceva anche uso di eroina, cocaina, ecstasy e ketamina, potente anestetico per cavalli popolare in discoteche e rave. Pochi giorni dopo a Londra, era domenica mattina, i quotidiani parlavano di un concerto annullato alla Brixton Academy; Amy aveva vomitato sul palco. Erano le undici e lei se ne stava stravaccata sulla poltrona di un qualsiasi Starbucks del centro, il laptop sulle ginocchia, i capelli e il trucco un disastro. Alcuni fan la osservavano dalla vetrina. Nessuno osò avvicinarsi per un saluto o un autografo. Diva, ma più sola di una barbona. Fotografia rock d´altri tempi.
Rivedendola a Lisbona, dopo una sgangherata esibizione al "Rock in Rio" che fece imbestialire il pubblico, ci venne lo stesso macabro pensiero di quando eravamo di fronte a Kurt Cobain (si sparò nel 1994 a Seattle), dietro il palco o in una disordinata camera d´albergo, dopo un altro estenuante concerto dei Nirvana. Tutti, amici e colleghi, dicevano: «È chiaro che sta malissimo, è evidente che così non può andare avanti, in un modo o nell´altro finirà male. E allora perché nessuno fa niente? Sua moglie, i discografici, gli impresari…». Lo star system è molto protettivo, della vita sregolata di Janis Joplin o Hendrix (entrambi morti per overdose) trapelava pochissimo all´epoca. Le rockstar sono macchine che producono denaro, bloccare la loro carriera, cancellare intere tournée significherebbe, per un vasto entourage, rinunciare a proventi sicuri e, per l´industria, a un gettito di milioni. Anche per questo Mitch, il padre della Winehouse, è spesso rimasto solo nella battaglia per cercare di salvare il salvabile.
Il copione della scena finale della vita di Amy è così antico che quasi viene da immaginarlo in bianco e nero; foto ingiallite di altri corpi di rockstar che viaggiano verso la morgue chiusi nei sacchi di plastica. Da Elvis a Heath Ledger (perché tanti attori fanno "una morte da rockstar" - come ha rischiato pochi giorni fa anche Jonathan Rhys-Meyers). Una volta, nel corso di una celebrazione in ricordo della morte di Presley, a Memphis, George Klein, dj e amico del cuore, ci raccontava di come il re del rock si fosse distrutto con eccitanti e antidepressivi assunti in dosi da cavallo (l´avversione di Elvis per le droghe è notoria, le sostituiva con farmaci regolarmente prescritti da medici compiacenti). Gli chiedemmo: ma stavate sempre insieme, un gruppo di amici battezzato The Memphis Mafia tanto erano stretti i legami tra voi. Perché non avete fatto niente per salvarlo? E lui: «È una questione di ego. Non l´avrebbe mai accettato. Perché non puoi dire a una star quello che deve e non deve fare».
Neanche Amy - rockstar vecchio stile - tollerava interferenze. E per questo era più sola, incompresa anche dai colleghi. Certi atteggiamenti tipici dei soggetti tossicodipendenti che un tempo erano tollerati nel mondo della discografica, nell´epoca del rock salutista sono guardati con diffidenza o addirittura emarginati. Se la Winehouse fosse stata una contemporanea di Janis Joplin, con l´industria discografica che monetizzava bizzarrie e miserie degli artisti, il produttore Mark Ronson - che ha scaricato Amy quando si è reso conto che realizzare un nuovo prodotto all´altezza di Back to black sarebbe stato improbabile con un´artista ridotta in quello stato - avrebbe certamente perseverato creando le condizioni per realizzare un altro disco anche in condizioni disperate (come fecero Paul Rothchild per Pearl, il canto del cigno della Joplin, o Irving Townsend per Lady in satin, l´album con le ultime canzoni di Billie Holiday).
«Il sogno rock si è miseramente infranto», ci ha detto George Michael, sottolineando la povertà delle offerte musicali di questi anni. «È una religione i cui adepti si sono dispersi. Solo ascoltando Amy Winehouse ho avuto la certezza che il rock potesse ancora generare un culto». Anche se musicalmente Amy si sentiva più vicina ai vocalist del dopoguerra che a Hendrix e Led Zeppelin, il suo stile di vita era perfettamente in sintonia con quello dei rocker che fiorivano e sfiorivano al Chelsea Hotel di New York. Sognava di cantare Body and soul con Tony Bennett, il suo idolo. E quella - per quanto si sa - è la sua ultima registrazione ufficiale (uscirà il 20 settembre nell´album del crooner intitolato Duet II). Amy Winehouse non si voleva bene, questa era la sua più grave patologia. Non l´avrebbero salvata Deepak Chopra, il dottore indiano che riequilibra le star di Hollywood in crisi d´identità, né la Cabala che ha rimotivato Madonna alla soglia dei cinquanta. Confessando la sua impossibilità di essere normale, Amy ci disse: «La musica è l´unica terapia che ho a disposizione per trasformare il fallimento in vittoria». Paradossalmente, la sua tragedia personale ha generato un repertorio che è un´oasi nella grande depressione del pop contemporaneo.