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 2011  luglio 28 Giovedì calendario

E GIULIO CESARE DISSE: «TIPO IL DADO È TRATTO»

Lo stile è l’uomo, il modo di parlare di un popolo ne rivela fedelmente i costumi e la mentalità. A vent’anni ho capito solo attraverso una viva (dolorosa) esperienza - diciamo così "linguistica" - il discorso di Christopher Lasch sul narcisismo. Ero innamorato di una ragazza, provai a dichiararle - tutto tremante - i miei sentimenti, e lei mi replicò perentoria: "È un problema tuo". In quel trascurabile episodio si manifestava l’inesorabile Spirito del Tempo.
Il punto dunque non è tanto condannare con tono di disgusto i molti e inevitabili cliché della nostra lingua quotidiana (ogni epoca e ogni Paese ha i suoi). E anzi quando la riprovazione dei tic linguistici diventa genere retorico, quando perfino Bruno Vespa finge indignazione se qualcuno dice "un attimino", c’è di che diffidare. Bisogna invece usarli come specchio veridico e autobiografia - in continuo movimento - della nazione. Proviamo allora a fare un censimento, benché parziale e forse geograficamente condizionato, tentando di raggrupparli in quattro diverse aree semantiche, che rinviano ad altrettanti aspetti di una riconoscibile "ideologia italiana" del nostro tempo.
Un primo raggruppamento riguarda l’ansia di rassicurazione e autorassicurazione. Se quando incontrandoti ti chiedono "tutto a posto?" (o "tutto bene?"), non intendono tanto sapere se davvero ti va tutto bene (richiesta a ben vedere improbabile, massimalista) quanto placare la propria ansia: vogliono a tutti costi che tutto sia a posto, che niente possa turbare il loro precarissimo equilibrio (e pretendono da te una risposta che li rassicuri). Non ammettono il negativo, la parte dell’ombra, la più piccola contrarietà. Eppure la comune esperienza è fatta anche di ombre e piccole contrarietà. Si manifesta qui una avversione, tipica della attuale civiltà, all’esperienza reale (alla quale si preferiscono simulazioni più manipolabili), che è sempre conflittuale, faticosa e imprevedibile. Anche se, occorre dirlo, spesso la sicurezza ostentata tradisce una segreta ansietà. Se qualcuno proferisce un "non c’è problema" di solito mi allarmo moltissimo. Qualche anno fa chiesi a mio figlio come erano andati i quadri scolastici, e lui: "Non c’è problema... sono stato bocciato". Così lo sciame incontrollato di apodittici "assolutamente" (ma significheranno "sì" o "no"?), l’ossessivo "tranquillo" (di origine latino-americana), il minimalista "niente" a inizio di qualsiasi discorso (anche se prelude al racconto di un evento grave) e infine il "sicuramente" tormentone dei calciatori nelle interviste dopo-partita (l’effetto può essere involontariamente comico... immaginate il celebre monologo shakesperiano: "Essere o non essere... sicuramente non c’è problema").
Poi abbiamo le formule (di saluto, di scambio) legate alla società-spettacolo. Un amico non ti vede da un anno, lo saluti normalmente e lui: "Allora?". Ma come "allora?" In quel momento ti comunica il suo desiderio infantile di continue novità. La vita, si sa, è così noiosa, e la noia riusciamo a sopportarla sempre meno. Abbiamo bisogno di eccitanti, distraenti ed "emozioni" (mai parola fu così gettonata nell’epoca più inemotiva e cerebrale di sempre). Tutto inoltre si spettacolarizza nel senso che fa teatro. Non ti dico soltanto che mi sei indifferente e che di te non me ne frega niente. Mi piace esibire questa indifferenza con una perifrasi estenuata, come su un palcoscenico: "Non me ne può fregare di meno".
Poi ci sono i vezzi della middle class culturale nata dall’alfabetizzazione veloce: ha una cultura "blobbiana" e maneggevole, è frivola e pensosa, citazionista e smaniosa di apparire aggiornata. Se ogni tre parole ci metto un "come dire?", voglio farti sapere che sono molto problematico, che non riesco a trovare le parole per dirlo tanto il mio pensiero è sottile, labirintico. Mi vengono in mente anche il lezioso "infatti sì", il passepartout finto-problematico "in qualche modo" (in qualche modo anche il fascismo è stato un fenomeno della modernità...), con le sue molte varianti ("ma anche", etc.), inoltre quelle frasi che ci fanno sentire sempre un po’ inadeguati, convenzionali o perfino un po’ tonti (l’interlocutore dopo aver detto un battuta che ci sembrava volgare: "Non hai capito, ero ironico").
Infine: con altre frasi gergali si schiude davanti a noi la inafferrabile modernità liquida. Non più "ieri sera sono andato al cinema", ma "tipo che sono andato al cinema". L’esistenza diventa meravigliosamente fluida, sperimentale, fatta di tante ipotesi. "Tipo che mi piace il mare o "tipo che mi piace la montagna": l’esperienza si dissolve nei suoi infiniti cataloghi (da sfogliare di continuo) e la illimitata libertà del consumatore è salva. Immaginate un Giulio Cesare postmoderno che sul Rubicone avrebbe potuto dire: "Tipo che il dado è tratto". Nella stessa direzione va l’uso improprio (e di origine settentrionale, vagamente snobistica) di "piuttosto che" come sinonimo della disgiuntiva "o", che genera possibili equivoci: nell’esperienza non si danno più aut-aut che impongono scelte ma tutto viene livellato. Penso anche a "ci può stare", formula tipicamente italiana dell’autoassoluzione ("In dieci anni di fedeltà coniugale ci può stare un tradimento") e a "quant’altro"(il figlio chiede al padre in quali valori credere, e quello: "Rispetto per il prossimo, amore per la natura... e quant’altro").
Non intendo apparire come un arcigno censore del linguaggio (organismo vivo, dunque mutevole e corruttibile) o come un severo custode della Crusca. Ognuno adoperi le espressioni che crede, molte delle quali hanno solo una funzione fàtica (garantiscono la continuità del contatto), sono tappabuchi o riempitivi che ci servono a prendere tempo. Non mi scandalizza l’italiano neostandard, assai più incline che in passato ad assimilare elementi del parlato, né ritengo che la lingua televisiva si associ a degrado. Anzi può succedere che Bonolis mescoli trivialità a ricercatezze (l’ho sentito dire in un varietà televisivo "varieganza"), mentre dalla De Filippi si parla volentieri di "entropia". Al riguardo potrei solo auspicare che l’intera comunicazione quotidiana non si riduca a quelle espressioni inerziali, a un ronzio verbale pervasivo che non comunica né esprime più nulla. Naturalmente ho, come tutti, le mie idiosincrasie personali, come ce le avevano, che so, scrittori "moralisti alla Flaiano, Bianciardi, Vassalli" (a proposito: solo in Italia è invalsa l’espressione "Dai, non fare il moralista", come se questo fosse, realisticamente, il nostro problema principale), o registi misantropi come Nanni Moretti ("Chi parla male pensa male") o il cantautore sensibile e naïf Rino Gaetano (la canzone "Nun te regghe più"). Ma ciò è secondario.
Come prima accennavo, tutti insieme i tic linguistici dei nostri anni configurano un atteggiamento di fondo, una disposizione comune a molti dei nostri connazionali, che con qualche immaginazione sociologica potrei così riassumere: fuga tendenziale dall’esperienza (che sempre implica qualche frustrazione), illusione di controllarla attraverso il suo addomesticamento in chiacchiera e "narrazione" (molto più gestibile), in virtualità e in spettacolo, in repertorio da consultare. E ancora: esibizione di gusti pseudoraffinati, di una eccentricità gregaria (tipica da snobismo di massa), che nasce da quello che Sylos Labini vent’anni fa chiamava "desiderio di sfuggire a una vita mediocre e di emergere a ogni costo". Pretesa di immunità morale (se qualcuno dice che fa una cosa "per sfida" state pur certi che deve giustificare qualche nefandezza), aspirazione a una esistenza extralight, gassosa e anestetizzata, senza più alcun impegno emotivo, a un dionisiaco soft e regolabile, tra un Calvino depotenziato e una molto, molto sostenibile leggerezza dell’essere. Come sapeva Marx nel capitalismo tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria: valori, credenze, linguaggi, tecnologie, tradizioni. A qualcuno sembra liberatorio. A qualcun altro questo orizzonte uniformemente liquefatto non piace, ma già esserne un po’ consapevoli, e dunque riflettere con pazienza sulla nostra mobile lingua d’uso, e le sue involontarie coazioni, può tornarci - "come dire?" - assai utile.