Tomaso Montanari, Saturno-il Fatto Quotidiano 22/7/2011, 22 luglio 2011
CRISTO SI È FERMATO A CUTIGLIANO - «CHI VUOL RITRARRE
Madonne, vada sulla montagna di Pistoia: il brutto stesso qui ha un non so che d’angelico, e la rallegratura (come la chiamano a Firenze con termine incomparabile), la rallegratura del viso è cosa da non poter raggiungere con l’immaginazione». La provincia di Pistoia potrebbe farci i manifesti, con questa frase della Gita nel pistoiese di Niccolò Tommaseo (1832): e sarebbe una vera rivoluzione, visto che lo standard, in materia è quello supercafone dello spot sui Bronzi di Riace della Regione Calabria.
Quasi due secoli dopo, è ancora un incanto trascorrere un pezzo d’estate sul lembo d’Appennino dove la Toscana trapassa in Emilia: una montagna senza il glamour delle Dolomiti, l’asprezza vertiginosa della Val d’Aosta o la malìa verde della Sila. Ma una montagna che – con la torpidità feriale dei suoi laghi, con la moderazione delle sue cime arrotondate, col verde-viola delle sue mirtillaie assolate – riattiva l’immaginazione fiaccata dall’arsura calcinante della città. Salire in quella montagna significa avere spazio e tempo per pensare, per leggere, per viaggiare nel tempo e dentro se stessi. Tommaseo si fermò particolarmente a Cutigliano, e davanti al Palazzo Pretorio constatò che «così vediamo una terricciuola di montagna conservar con più cura qualche vestigio del passato che non faccia qualche culta città».
E chissà se pensava anche alla Circoncisione di Gesù firmata da Giovanni da San Giovanni nel 1620: una gemma preziosa conservata nella Pieve di San Bartolomeo. Su un fonte battesimale ante litteram si china il sacerdote dalla veste candida, mentre un minuscolo, tenerissimo Gesù si agita in braccio al vecchio Simeone. A destra si affaccia Giuseppe, dalla verga fiorita. Più in basso è Maria, indimenticabile protagonista del quadro: sfilata come una figura di Callot, in una specie di flammeo da sposa romana, con un velo che scopre l’orecchio e non mitiga un profilo rustico di giovanissima popolana. In questo capolavoro provinciale di quella sorta di Guercino fiorentino che fu Giovanni, si respira profumo di Caravaggio: forse conosciuto in un viaggio a Roma, chissà se intuito grazie a un’analoga licenza di vita (anche Giovanni era libero, vestito «sì a caso che più non sarebbe stato se i panni gli fusser stati gettati addosso dalle finestre», ricorda Filippo Baldinucci). Ma c’è anche un annuncio timido di barocco. In quell’addensarsi drammatico di poche figure (con il Giuseppe che è già quasi Pietro da Cortona) la «modesta grazia campestre della vita fiorentina del primo Seicento» (Giuliano Briganti) si vena d’estro bizzarro, e pare gonfiarsi in un’eloquenza nuova. E si capisce che Giovanni potesse avere fortuna non solo in una Firenzina ormai consegnata irrimediabilmente al proprio passato, ma perfino nella Roma dei Barberini e del cardinale Guido Bentivoglio, la cui protezione egli condivise nientemeno che con Van Dyck.
La poesia insieme semplice e raffinata del rito familiare dipinto da Giovanni evoca un’altra poesia cutiglianese. Tommaseo ricorda che «a Cutiglian feci venire di Pian degli Ontani una Beatrice, moglie d’un pastore, donna di circa trent’anni che non sa leggere e che improvvisa ottave con facilità senza sgarar verso quasi mai, con un volger d’occhi ispirato». Era Beatrice di Pian degli Ontani (1803-1885), la “poeta pastora” visitata anche da Massimo D’Azeglio e Giuseppe Giusti. Nei suoi versi vibra una struggente malinconia: «Non vi maravigliate, giovinetti, / S’io non sapessi troppo ben cantare; / In casa mia non c’eran maestri, / Né mica a scuola son ita ad imparare. / Se volete saper dov’era la mia scuola, / Su per i monti all’acqua alla gragnuola. / E questo è stato il mio imparare, / Vado per legna e torno a zappare». Era la vita durissima dei pastori che, alla fine di ottobre, scendevano nell’amarissima Maremma per trascorrervi l’inverno. Rifacendo oggi quello stesso percorso – ma non a piedi, e per dividere una vacanza tra montagna e mare – è impossibile non arrossire ripensando a Beatrice, alla Madonna di Giovanni da San Giovanni, e soprattutto alla «poesia, che in quei poveri montagnoli pare un bisogno»: come annotava ancora Tommaseo, per il suo stupore e per la nostra vergogna.