Gianni Dragoni, Il Sole 24 Ore 22/7/2011, 22 luglio 2011
SOCIETÀ MUNICIPALI, UN TESORO DA 35 MILIARDI
Lo diceva già Cesare Romiti il 26 novembre 2001, quando Silvio Berlusconi era tornato a capo del governo da poco più di cinque mesi: «La mia sincera opinione è che Berlusconi non ha nessuna voglia di privatizzare la Rai perché, pur essendo liberista, è entrato in un’ottica di idee che è meglio gestire». E così è stato, anche se Berlusconi prometteva di privatizzare due reti Rai.
«Una delle tre reti deve restare pubblica – spiegava Berlusconi al settimanale francese Le Point a fine gennaio 2002 – e avere una gestione non di parte. Le altre due saranno privatizzate quando si sarà rimesso ordine nelle loro finanze perché al momento attuale è impossibile metterle sul mercato. Sarebbe una svendita». Tutte le volte che il progetto di privatizzare la Rai è stato abbozzato, sono sorti ostacoli. In un groviglio in cui si intrecciano politica e di soldi.
Ai governi ha sempre fatto comodo avere tre reti tv per addomesticare l’informazione. E da quando Silvio Berlusconi è in politica, cioè dal 1994, pesa anche il conflitto d’interessi del premier, proprietario del gruppo Mediaset. «È evidente che il nostro interesse è avere una Rai pubblica», replicava candidamente a Romiti il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, quel 26 novembre di dieci anni fa.
Una Rai privatizzata, dunque privata anche dei proventi del canone (pari a 1.685 milioni di euro nel 2010), avrebbe maggior libertà di manovra nella raccolta di pubblicità, senza i tetti attuali. Nel 2010 tutto il gruppo Rai ha raccolto quasi 1.029 milioni di pubblicità. Senza il vincolo normativo collegato al canone potrebbe attirare molti più soldi dagli inserzionisti. Quindi ci sarebbero meno risorse per Mediaset, che si finanzia solo con la pubblicità e nel 2010 ha fatturato 4.292 milioni (di cui 3.438 in Italia, il resto in Spagna), rispetto ai 3.012 del gruppo Rai. Alcuni esperti stimano che la torta si ridurrebbe anche per il resto dell’editoria, giornali, online, ecc.
Altra questione delicata il valore. Quanto vale la Rai? Come riferimento si può prendere Mediaset, che in Borsa, dove ha perso il 31,6% dall’inizio dell’anno, vale 3.668 milioni di euro, appena 10,4 volte l’utile netto consolidato del 2010 (352 milioni). Difficile pensare che la Rai, in profondo rosso (-98 milioni il consolidato 2010, -62 milioni il 2009), possa valere di più. Perdente nella redditività, viale Mazzini ha però più ascolti (nel 2010 il 41,3% contro il 37,6% nel giorno medio, il 43,7% contro il 37,5% nel prime time) e una situazione finanziaria migliore. Mediaset ha un indebitamento finanziario netto consolidato di 1.590 milioni a fine 2010, dieci volte i 150,4 milioni del gruppo Rai. Che, con 11.400 dipendenti, ha però quasi il doppio del personale di Mediaset. Il valore della tv pubblica è stimabile non lontano da quello di Mediaset, considerando anche l’indebitamento più basso. Certamente non è la cifra che aveva sparato Pietro Ciucci, all’epoca direttore generale Iri, il 14 maggio 2000, ipotizzando «un valore teorico di 30mila miliardi» di lire per la Rai, circa 15,5 miliardi in euro.
Tra le partecipazioni pubbliche, al centro non c’è rimasto molto effettivamente vendibile, così una nuova ondata di privatizzazioni dovrebbe guardare soprattutto in periferia, nei servizi pubblici locali, dove il numero delle società a controllo pubblico aumenta ogni anno. Secondo stime della Kpmg, la società che insieme alla Fondazione Mattei dell’Eni cura il rapporto «Privatization barometer», il numero delle società partecipate dagli enti locali è aumentato da 4.604 nel 2003 a 5.559 nel 2010. Le partecipazioni in queste società hanno un valore teorico stimato tra i 30 e i 35 miliardi di euro, di cui non più del 40% riferibile a società in Borsa.
Secondo altre ricerche citate nel «Privatization barometer» per il 2010, le società controllate da enti locali territoriali sarebbero 711, per lo più a controllo comunale (431), con 102 miliardi di euro di patrimonio totale, un giro d’affari annuo di 43 miliardi e quasi 240mila dipendenti.
È questo insomma il perimetro dei servizi pubblici locali cui guardano i nuovi privatizzatori, tenendo presenti i vincoli legati al referendum contro la privatizzazione dell’acqua. Ipotizzando almeno 30 miliardi di introiti, gli incassi derivanti dalla vendita di queste attività inciderebbero per appena l’1,58% sulla montagna del debito pubblico, salito a 1.897 miliardi di euro al 31 maggio scorso. Proseguendo in questa simulazione, la riduzione del costo annuo degli interessi sul debito, pari a circa 70 miliardi nel 2010, sarebbe di 1,1 miliardi (l’1,58% di 70 miliardi).
Non è solo una questione di incasso. Secondo studi della Fondazione Mattei sulle società controllate da enti locali, «più alta è la quota detenuta da soggetti privati, migliore è il risultato in termini di redditività e di efficienza gestionale». Anche una ricerca dell’Unioncamere conclude che i risultati delle società possedute dagli enti locali si collocano sotto la media nazionale, la produttività del lavoro è più bassa, mentre i costi operativi sono più alti.
A livello centrale, proventi importanti potrebbero venire dalla cessione di quote azionarie delle Poste, risolvendo però il problema dei sussidi incrociati tra servizio universale e rete di vendita di prodotti finanziari in concorrenza con le banche come ha rilevato Gian Maria Gros-Pietro, oppure delle Ferrovie dello Stato, la cui redditività tuttavia è ancora fragile. Poi c’è la chimera degli immobili. Lo Stato stima di avere un patrimonio di almeno 700 miliardi, ma all’atto concreto risulta difficile dismettere.
Infine ci sono le partecipazioni del 30% nei grandi gruppi quotati in Borsa, i campioni dell’energia (Eni ed Enel) e della difesa (Finmeccanica) e il 13,8% nella St Microelectronics. Ai valori correnti, piuttosto depressi, considerando l’effettivo possesso azionario del Tesoro, da queste dismissioni il ministro Giulio Tremonti potrebbe incassare circa 28 miliardi. Ma si priverebbe anche di due miliardi l’anno di dividendi (secondo i bilanci 2010), mentre si aprirebbero delicate questioni per il controllo di imprese strategiche, dall’energia alla difesa.
In caso di dismissione di partecipazioni di secondo livello già in Borsa, quali Terna, Snam rete Gas e Enel Green Power, la quota di proventi di competenza del Tesoro sarebbe di 4,8 miliardi.
In definitiva, per privatizzare attività importanti occorrono anche compratori. E nel panorama italiano, come mostrano le vicende Telecom e Aeroporti di Roma, di investitori disposti a mettere soldi propri, anziché caricare il costo sulla società con il debito, non se ne vedono tanti.