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 2011  luglio 01 Venerdì calendario

MARIO LAVAGETTO "IL MIO MODELLO È SVEVO CLANDESTINO DELLA CULTURA"

L´appuntamento con Mario Lavagetto, studioso di letteratura che calca da decenni la scena culturale italiana, e non soltanto quella, avviene obbligatoriamente nella sua città natale. Glielo impone la dialisi. D´altronde Parma è sempre stata il timbro di fabbrica della sua "lateralità di sguardo": qui è cresciuto, qui ha insegnato al liceo Romagnosi, qui ha diretto la casa editrice Pratiche, qui è tornato dopo aver abbandonato, anzitempo, l´insegnamento universitario.
«La mia vita accademica è cominciata in modo singolare. Nel ´68 ero assistente volontario all´Università di Parma, quando sono stato indicato come uno dei capi della rivolta: uno che voleva distruggere le biblioteche, figurarsi. È montata una posizione di duro ostracismo nei miei confronti e allora me ne sono andato sbattendo la porta. Finché, un giorno, mi arriva la telefonata di un signore che non conoscevo, ma di cui avevo grande stima, Alessandro Galante Garrone, che, conosciuta questa storia e avendo letto alcune mie cose che lo avevano interessato, mi propone un incarico all´Università di Sassari. Gli chiedo tre giorni per pensarci e poi gli dico di sì. In Sardegna ci sono stato sei anni, poi ho vinto la cattedra a Bologna e lì sono rimasto».
Però poi ha lasciato l´università anzitempo. Perché?
«Hanno pesato le mie condizioni di salute, ma la ragione principale è che ho sentito arrivare un´idea di università a me estranea: la licealizzazione, il concentrarsi dell´insegnamento in semestri che di fatto diventavano trimestri. Per me i corsi erano sempre stati una cosa seria e vitale: la maggior parte dei miei lavori è nata così. Non ho mai ripetuto un corso lungo tutta la mia carriera. Insegnavo intenzionalmente una materia complementare, Teoria della letteratura, perché così i miei studenti erano più motivati. Seguire i miei programmi, però, comportava la lettura di sette-ottomila pagine. Oggi sarebbe impensabile».
A Parma lei ha diretto anche una casa editrice, Pratiche. Quali erano i vantaggi di un´attività culturale svolta in provincia?
«Intanto l´assoluta libertà. Il maggior successo del nostro catalogo è stato l´intervista a Hitchcock di Truffaut, che avevo vanamente proposto a due o tre grandi case editrici. Un programma così coerente come quello di Pratiche era difficilmente immaginabile in un grande gruppo editoriale. Non subivamo pressioni e richieste: gli errori che possiamo avere commesso sono stati nostri, mai imputabili a imposizioni dall´esterno».
Quanto ha contato, nella sua lateralità di sguardo, il magistero di Giacomo Debenedetti?
«Moltissimo. Lo conobbi quando facevo l´ultimo anno di liceo. C´era un giornale, credo fosse La Sera, dove lavorava un mio amico che mi presentò questo omino che usciva da una nuvola di fumo. Quell´uomo piccolo e sapiente è diventato poi il mio punto di riferimento, e malgrado i rapporti tra noi non siano stati sempre facili, da lui ho imparato molte cose, anche inconsapevolmente: è questo il segreto del vero magistero. In Debenedetti, il quale era molto interno alla società letteraria romana, c´era un pressante bisogno di riconoscimento, legato, credo, al suo essere ebreo. È curioso pensare che un uomo così intelligente attendesse l´apprezzamento di persone molto meno capaci di lui, che magari lo snobbavano pure. Perché la grandezza di Debenedetti è venuta fuori soltanto post mortem. Non a caso fu bocciato a un concorso universitario quando era già avanti negli anni: la sua fama era quella di un bravissimo outsider, che però – si diceva – aveva combinato poco».
E il definitivo riconoscimento a cosa si lega?
«Alla pubblicazione dei quaderni. Perché è dai corsi universitari che vien fuori il miglior Debenedetti. Anche se molti sono di avviso diverso, io preferisco la scrittura dei quaderni alla scrittura saggistica, che inevitabilmente paga qualche prezzo al tempo in cui vive. Nei quaderni si è in presenza di una scrittura animata da una grande energia intellettuale e prima ancora da una grande libertà. Anche dalla pubblicazione, al limite».
Si scelgono i maestri, ma si scelgono anche gli autori di cui occuparsi. Non sarà un caso che Italo Svevo, uno dei grandi outsider del Novecento, l´abbia occupata così tanto.
«Il suo modello può risultare molto interessante agli occhi di chi oggi va in cerca soltanto di visibilità: a tutti i costi. Svevo, a un dato momento, si mette onestamente in congedo dalla letteratura. Nel ´98, pubblicando Senilità, si dà una sorta di prova d´appello, ma la cosa non funziona. Decide allora di dedicarsi completamente all´attività industriale e condanna lo scrittore che è in lui a una specie di vita clandestina. Quando poi con la guerra quell´attività si blocca, e lui ha nuovamente tempo a disposizione, scrive La coscienza di Zeno, che ottiene sì riconoscimenti di primissimo ordine, ma vende mille e cinquecento copie. Altro che smania di visibilità! Lo dico senza nessun moralismo, semmai per rimarcare come una certa lateralità, se scelta e non imposta, comporta comunque dei costi».
Ma una volta scomparsa ogni comunità di riferimento, cos´altro resta se non il mito del successo?
«Io mi sono sempre attenuto a una semplice regola: cercare di fare ogni lavoro, anche il più piccolo, al mio meglio. Certo, poi ti guardi intorno e dici: ma per chi e perché sto scrivendo? Non è facile trovare una risposta. Anche se poi qualche piccolo risarcimento arriva, nei momenti e nei modi più impensati. Ad esempio, quando ti accorgi che qualcuno ha utilizzato il tuo lavoro e dunque il filo non si è definitivamente spezzato».
La figura del critico è da molto tempo sotto scacco, come lei stesso ha evidenziato in Eutanasia della critica. Al di là della letteratura, non crede che quella paroletta, "critica", sia il tesoro più grande che ci ha lasciato la tradizione occidentale moderna?
«Assolutamente sì. Solo che per far proprio un giudizio critico bisogna coltivare il dubbio e per coltivare il dubbio occorre avere tempo, mentre il tempo si è fatto ormai la moneta più rara. Per contro, l´assenza di esercizio critico crea delle personalità fragili, esposte ai luoghi comuni, ai conformismi di gruppo. Sia di destra che di sinistra».
A proposito di politica: lei si è occupato a lungo del problema della bugia in letteratura. Si possono trovare degli agganci con l´odierna scena pubblica italiana?
«Mica tanto. Bugia è un termine troppo alto, nobile. Qui siamo in presenza di oscene menzogne. Le bugie di cui mi sono occupato io sono quelle di Pinocchio o del barone di Münchausen. Hanno una funzione ludica, fantastica, creativa. Sono dei micro-organismi letterari, che insegnano una cosa precisa: se vuoi mentire bene, devi essere dotato di una grande memoria. Devi ricordarti la bugia di ieri, per procedere con il tuo racconto fantasioso anche il giorno successivo. Oggi tutto questo non è più vero. Primo, perché nel tempo abbiamo assistito alla distruzione totale degli archivi della memoria; secondo perché, di conseguenza, le parole valgono solo per poche ore. Sono parole, alla lettera, "irresponsabili": è come se avessero perduto loro stesse coscienza e memoria». (3. Fine)