Sara Faillaci, Vanity Fair n.29 20/7/2011, 20 luglio 2011
ERAVAMO SOLO NOI
«Con Edoardo oggi non ci parliamo. Dei miei figli ho bei ricordi di quando erano piccoli. Poi crescono, si fanno la loro vita, tu smetti di contare per loro, e loro per te. Io, del resto, sto bene da sola come tutte le Fallaci. Noi, con gli uomini, alla lunga non ci riusciamo a stare. Neppure se sono figli».
Era il primo anniversario della scomparsa di Oriana – a 77 anni, nel 2006 – e queste parole, che la sorella Paola affidava proprio a Vanity Fair nella sua prima intervista dopo la morte, raccontavano già una pesante frattura familiare. Provocata, forse, da un testamento che a sorpresa lasciava unico erede solo uno dei due nipoti della scrittrice e figli di Paola: Edoardo Perazzi, appunto. «La cosa mi ha molto stupito», spiegava la sorella nell’intervista. «A me l’aveva detto che non mi avrebbe lasciato niente, e io le ho risposto: fai bene, sono vecchia, mi basta poco per vivere. Mi è però dispiaciuto che non abbia pensato all’altro mio figlio, Antonio. Aveva sempre detto che avrebbe dato a lui metà della casa di New York, il piano di sotto con il giardino, perché Antonio è architetto del paesaggio. Oriana gli ha sempre voluto bene, lo trovava originale, intelligente. È un mistero per me che l’abbia dimenticato».
Ora che di anni da quella morte ne sono passati quasi cinque, il colpo di scena: la decisione di Paola e del figlio «dimenticato» dalla zia, Antonio Perazzi, di denunciare con un esposto alla Procura della Repubblica la falsità della firma in calce al testamento con il quale la scrittrice toscana nominava erede universale Edoardo. Falsità comprovata da una perizia calligrafica ordinata dal loro avvocato Francesco Brizzi (fino al 2004 legale di Oriana).
Edoardo, da noi interpellato, si è limitato a definire quelle della madre e del fratello «accuse folli: sono sereno e sicuro che nelle sedi opportune sarà chiarito tutto». Paola e Antonio, invece, hanno accettato di raccontarci la loro verità. Lei, ormai settantatreenne, vive nella casa di famiglia a Greve in Chianti, dove è tornata da Milano dopo la pensione.
Paola, perché questo esposto?
«Da cinque anni penso che il testamento non sia vero. Un giorno l’avvocato Brizzi, uno dei pochi che a Oriana abbia voluto bene sul serio, mi chiama e mi dice: “Ma me lo fa vedere questo testamento?”. Glielo portai, e lui disse subito che qualcosa non andava. In particolare, era sicuro che la firma non fosse quella di Oriana, firma che lui conosceva molto bene. Mi disse che dovevo reagire, ma io ho sempre opposto una furibonda resistenza. Prevaleva la protezione materna verso Edoardo; mi dicevo: aspettiamo, vediamo come si comporta. Ma lui si comportava sempre peggio».
Che cosa le ha fatto cambiare idea?
«Vedere come Edoardo ha gestito l’immagine di Oriana. Ha permesso alla destra di strumentalizzarla, ha passato il materiale che la riguarda solo a testate come Libero e Il Giornale che di recente, il giorno dopo in cui aveva pubblicato un articolo su Oriana a tutta pagina, è uscito con i diari di Mussolini. Oriana, figlia di partigiani e staffetta lei stessa durante la Resistenza, non avrebbe mai permesso una cosa simile».
Negli ultimi anni della sua vita, però, Oriana una certa anima conservatrice – contro quella che considerava l’«invasione» dell’Islam, soprattutto – la manifestava.
«Era rimasta profondamente scioccata dall’11 settembre. Da grande scrittrice, volle mettere la sua bravura al servizio di una causa. Era nel suo carattere l’esagerazione, poi però sapeva ricredersi e riconosceva di aver sbagliato, come era successo per il Vietnam: si era pentita di aver difeso i vietcong e dato addosso agli americani, e lo aveva ammesso».
Pensa quindi che si fosse pentita anche di essere diventata un’icona della destra?
«Se ne stava rendendo conto. Rimase molto male la volta che andò in Parlamento, vide Veltroni, gli fece un bel sorriso andandogli incontro e lui invece si voltò dall’altra parte. L’Oriana odiava le etichette, non si sarebbe mai definita né di destra né di sinistra, era uno spirito libero, come tutti i Fallaci: le stavano sulle scatole gli islamici, lo diceva ma ciò non significava che fosse di destra. Negli ultimi anni si intruppò con gente che la spingeva su una strada sbagliata. Ci fu una discussione tra noi proprio su questo argomento: le dissi che stava mettendo la sua intelligenza e la sua abilità al servizio di persone che non le meritavano di certo».
Di Berlusconi che cosa pensava?
«Lo detestava ma gli faceva solo dei piccoli dispetti, come scrivere cavaliere con la “c” minuscola».
Ma che interesse avrebbe suo figlio Edoardo a «spingere» l’immagine di una Oriana di destra?
«È una strada facile per lui, e che rende economicamente. Edoardo tratta Oriana come qualcosa da vendere, un cappello, una giacca, e questo mi è insopportabile. Abbiamo passato insieme quasi settant’anni e sapevo bene quello che avrebbe desiderato. Per esempio, conservo scritto da lei che non voleva assolutamente ripubblicare Penelope alla guerra, un libro che considerava giovanile. E Edoardo che cosa fa? Ripubblica Penelope alla guerra. Stesso discorso per Un cappello pieno di ciliege, un libro che Oriana non avrebbe mai voluto vedere stampato e che non aveva mai finito; la seconda parte è stata scritta da un ghost writer sui suoi appunti, e anche con parecchi errori che Oriana non avrebbe mai fatto».
Non parla così perché avrebbe voluto essere lei a curare l’eredità letteraria di Oriana?
«Sarei stata sicuramente la persona più indicata, nessuno la conosce come me, ma sono ben felice di non essere stata chiamata a questo gravoso compito. Soprattutto trovo sbagliato il lavoro di Edoardo, che lui dice di portare avanti seguendo lo spirito e la volontà di Oriana. Dell’Oriana non segue né lo spirito né la volontà, anzi non sa proprio nulla né dell’uno né dell’altra: resta un press agent della moda che di letteratura sa ben poco. Inoltre non sta facendo nulla di quello che avrebbe dovuto fare: come si sta muovendo perché Firenze ricordi meglio una cittadina tanto illustre? Dov’è la strada che la città aveva deciso di intitolare a lei? Perché la casa di New York, da lei tanto amata, sta andando in rovina?».
Dice che vuole tutelare l’immagine di sua sorella ma è legittimo credere che a muovere lei e suo figlio Antonio siano anche motivi d’interesse: il patrimonio di Oriana deve essere enorme.
«Avessi puntato al denaro, mi sarei mossa prima. Dopo cinque anni chi può sapere dove siano finiti i soldi e tutte le sue cose? Non avremo nulla, di questo sia io sia Antonio siamo ben coscienti. Ma ci addolora che Edoardo abbia spaccato una famiglia di quattro persone: eravamo solo io, Oriana e i miei due figli. Ora due persone della famiglia sono state offese e trattate malissimo; Oriana lo avrebbe voluto? Come madre, penso di avere il dovere, oltre che il diritto, di dire a Edoardo che ha sbagliato: se non glielo faccio notare io, che fa grandi puttanate con la memoria di Oriana, chi dovrebbe farlo? Gli altri che ci guadagnano?».
Fa effetto però vedere una madre che va in tribunale contro il figlio.
«Potrei girare la domanda: come può un figlio mettersi contro la madre e contro l’unico fratello? Edoardo è stato un figlio desiderato e rispettato, un fratello amato. Mi fidavo così tanto di lui che non ho mai collegato il lungo silenzio dell’ultimo anno di Oriana con le sue trame. Mia sorella era molto influenzabile se uno ci sapeva fare. E dopo la sua morte, Edoardo è diventato addirittura un altro. Una sua frase mi ha particolarmente ferita: “La prima che voglio fottere è la mamma”. Non mi ha mai invitata a un evento legato a Oriana, neppure quando l’evento era a Firenze. Mi ha addirittura cancellato dall’albero genealogico pubblicato sull’ultimo libro di mia sorella, come se i miei genitori avessero avuto solo lei per figlia. L’affetto scompare lentamente ma inesorabilmente quando vieni bistrattata, insultata, chiamata “vecchia pazza”».
Non avete mai provato a parlarvi?
«Non ci parliamo da quando è morta l’Oriana. Una volta stavo chiamando il mio oncologo e sbagliai numero perché nella rubrica era proprio sotto quello di Edoardo. Sentii una voce, ebbi un attimo di smarrimento, riuscii a dire un “Eilà, come va?”. Dall’altra parte buttarono giù».
Il legame tra madre e figlio non dovrebbe essere più forte di ogni incomprensione?
«Medea ammazzò i suoi figli. Anche se i suoi figli erano innocenti: Edoardo non è innocente per niente».
Antonio Perazzi è il secondogenito di Paola Fallaci. Ha 42 anni, tre meno di Edoardo, e, come il fratello, quattro figli. Vive a Milano e di professione fa l’architetto del paesaggio.
Perché ha deciso di schierarsi al fianco di sua madre?
«Sono al suo fianco non da ora ma da sempre. Sono rimasto molto male per il comportamento di Edoardo. Veniamo da una famiglia poco numerosa, non ricca, e mia madre ci ha allevato con molti sforzi perché mio padre è andato via quando eravamo molto piccoli ed è stato uno di quei genitori che non si occupano dei figli. Per la mamma non è stato facile, eppure non ha mai voluto che ci mancasse niente. Ho avuto fortuna perché mi ha fatto da padre mio nonno Edoardo (Fallaci, padre di Oriana, della secondogenita Neera – morta negli anni Ottanta –, di Paola e della figlia adottiva Elisabetta, ndr): passavamo tutte le estati in Toscana da lui. L’Oriana invece ci ha fatto da padre e madre insieme, ma lei era l’artista stravagante, arrivava, ci cazziava e poi ripartiva».
Non era affettuosa?
«Era molto legata alla famiglia, a modo suo, s’intende. È stata molto brava a non viziarci, ci metteva continuamente alla prova. Se volevamo fare qualcosa ci spronava a tentare, ma ricordandoci che lo facevamo a nostro rischio e pericolo. Quando al liceo feci un anno in America, pur sapendo che lei stava a New York non la chiamai mai per non darle noia. Una volta rientrato in Italia, glielo dissi e lei mi rispose: “Bene, sono orgogliosa di te che non mi hai rotto i coglioni”. Quello era il nostro rapporto».
Come prese la notizia del testamento che escludeva lei e sua madre?
«Morta Oriana, scopriamo all’improvviso che c’è un erede universale. Quando veniamo a sapere che si tratta di Edoardo, con la mamma ci diciamo: meglio lui che un vicino, un gatto, l’avvocato o chissà chi. Ma una settimana dopo Edoardo ci fa: “Scusate, forse non avete capito. Io sono l’erede universale, e voi fuori dalle palle”. Arrivava gente a casa nostra a prendere mobili e oggetti. Abbiamo dovuto difenderci da uno a cui non bastava mai niente».
Va bene, ma che cosa le fa pensare che sua zia potesse avere intenzioni diverse in merito all’eredità?
«L’Oriana da anni diceva che voleva fare una fondazione – presumibilmente nel suo appartamento di New York perché era quella la sua casa, la sua isola – e lasciare qualche cosa a me e all’Edoardo in uguali proporzioni. Noi sapevamo benissimo che cosa: soldi, ma neanche tanti, perché non ci voleva viziare e si guardava bene dal suscitare in noi l’aspettativa che ci avrebbe lasciato chissà che cosa».
E adesso, pensa quindi di aver subito un’ingiustizia?
«Non mi interessano i soldi, altrimenti mi sarei mosso per tempo e in ben altro modo. L’esposto l’abbiamo fatto per salvaguardare la mia famiglia e per fermare la cupidigia esagerata di Edoardo, la sua smania di arricchirsi su qualunque cosa riguardi la memoria dell’Oriana. E non mi riferisco solo a Un cappello pieno di ciliege – un libro che Oriana non voleva fosse pubblicato – ma anche ai tanti pettegolezzi usciti, alla profanazione delle carte e delle cose di mia zia, un affronto tanto più grave se si pensa a quanto lei fosse riservata».
In che senso?
«Deve capire che io e l’Edoardo siamo cresciuti con il mito dell’Oriana che non si doveva disturbare. Non potevamo toccare le sue cose, meno che mai la macchina per scrivere, non potevamo mettere piede nelle sue stanze della casa in Toscana, neanche quando era in America. Il fatto che avesse un carattere infernale, e noi lo sappiamo bene, non giustifica che di lei e della sua vita siano stati divulgati i minimi dettagli. Quando è morta, io e la mamma abbiamo avuto un senso di profanazione solo a mettere le mani nel suo cestino dell’immondizia, mentre Edoardo non si è fatto scrupolo di tirar fuori documenti e distruggerne altri. Non ha rispettato nessuna delle sue volontà, neanche riguardo ai libri che sta facendo pubblicare, e che Oriana non avrebbe mai voluto vedere stampati».
Prima della rottura, com’erano i rapporti con suo fratello?
«Abbiamo fatto lo stesso liceo e la stessa scuola di rugby, siamo nati lo stesso giorno a tre anni di differenza, cresciuti circondati dallo stesso amore e dalle stesse cose. Di carattere Edoardo era prepotente, il classico ragazzino che mena, ma per il resto avevamo un normalissimo rapporto tra fratelli, né freddo né troppo appiccicoso».
Oriana ha mai fatto preferenze tra voi?
«Mai. Io in realtà l’ho frequentata più di mio fratello, ho fatto molti viaggi con lei, compreso quello nella Guerra del Golfo dove mi volle come fotografo perché non si fidava di nessuno. Il primo quando avevo otto anni e mi chiese: “Hai il coraggio di prendere l’aereo da solo e venire in America per fare un viaggio di lavoro con me? Ti mando la macchina a prenderti all’aeroporto”. Accettai subito. Era capace di organizzare sorprese bellissime per me, come la volta che fece una deviazione solo perché io vedessi le cascate del Niagara, ma anche di farmi una scenata perché l’avevo chiamata zia davanti a un cameriere, o di obbligarmi a stare immobile, in silenzio, guardando nel vuoto, perché voleva che avessi una certa immagine mentre lei faceva qualcos’altro».
Una zia impegnativa.
«Come tutti i perfezionisti, era molto concentrata sul suo lavoro. Il che non significava che non ci volesse bene, o che non avesse bisogno di conferme. Negli ultimi anni mi chiamava e mi diceva: “Antonio, devi venire assolutamente a potarmi un ramo della mia robinia, non mi fido di nessun giardiniere”. E io prendevo l’aereo, mi sorbivo la sua crisi isterica perché il vicino voleva farle causa per il ramo, ma dentro di me sapevo che mi aveva chiamato perché aveva bisogno di compagnia, di una conferma del mio affetto».
La vide anche nell’ultimo periodo?
«In realtà, quando aveva iniziato a stare male davvero, aveva chiesto espressamente di essere lasciata in pace, di non avere intorno nessuno: voleva morire da sola organizzando la sua fondazione, i suoi libri. Solo dopo che è morta io e la mamma abbiamo scoperto – da ingenui, come ci ha definiti Edoardo stesso – che mio fratello era andato per due anni a fare la posta alla zia moribonda».
Lui ovviamente ha un’altra versione. Non ha mai cercato un confronto con Edoardo, un chiarimento?
«Quando gli ho chiesto spiegazioni, mi ha messo le mani addosso».
Ora non avete nessun rapporto?
«No. Ironia della sorte, sono tornato da poco a vivere nella casa dove siamo cresciuti a Milano e i vicini regolarmente mi chiedono: “Come sta tuo fratello? Ah, voi sì che siete ricchi”. E chi invece sa come sono andate le cose si chiede che cosa io abbia mai combinato di così orribile per essere stato escluso dall’eredità. Questa oggi è la mia vita».
Neanche i vostri figli si vedono più?
«Sarebbe difficile. Una che va alla scuola privata e ha la cameriera, l’altra che invece va alla pubblica e a cui non è stato dato neanche un ricordo della zia scrittrice. E dire che mia figlia si chiama Caterina Oriana».
Segue box con testo di Enrica Brocardo
«Ricordati che la famiglia non conta niente». Così rispondeva Oriana Fallaci a Sandro Sechi quando lui le chiedeva come mai non chiamasse più spesso i parenti.
O almeno questo è ciò che Sechi mi aveva raccontato cinque anni fa quando lo intervistai per la pubblicazione del suo libro Gli occhi di Oriana (Fazi editore): un resoconto dei cinque mesi trascorsi in qualità di suo assistente a New York, dalla fine di dicembre 2004 all’aprile dell’anno dopo, quando lei lo licenziò da un minuto all’altro.
Sechi vive ancora a New York. Lo raggiungo attraverso una delle scuole in cui insegna italiano. «Non mi stupisce che la Fallaci avesse deciso di non lasciare nulla all’altro nipote», mi dice, «dal momento che non lo considerava minimamente. E lo stesso valeva per la sorella Paola».
Nonostante la Fallaci lo avesse licenziato nel 2005, Sechi continuò a lavorare in Rizzoli fino a poche settimane prima della morte della scrittrice, il 15 settembre 2006. «Dovevo fotocopiare qualunque documento la riguardasse», dice. «All’epoca, era praticamente cieca ma in grado di firmare in modo perfetto. Utilizzava due tipi diversi di firme, una più “elaborata” e una più informale. Sono convinto che il testamento non sia un falso, ma questo non vuol dire che non avrebbe potuto decidere di lasciare ad altri, invece che a Edoardo, i suoi beni: la sua preoccupazione era trovare qualcuno in grado di prendersene cura come avrebbe fatto lei».
A partire dalla casa, che, ricorda Sechi, tentò di vendere al suo medico di fiducia, Tom Fahey. «In una lettera, gli proponeva l’acquisto a un prezzo di favore. Pensava fosse la persona giusta per trattarla con amore, proprio come aveva sempre fatto lei, piuttosto che considerarla un investimento. Quando un anno fa andai a vedere in che condizioni fosse lo stabile», aggiunge Sechi, «lo trovai messo in vendita, e in uno stato di totale abbandono».
Stesso discorso per la sua collezione di libri antichi, che tentò di affidare alla figlia di Tom Fahey. Racconta Sechi: «La invitò a casa per studiarne le reazioni e valutare se sarebbe stata all’altezza di custodirla. La donna non passò il test e così lei donò i libri alla chiesa».
Una persona che fu vicino alla Fallaci fino ai suoi ultimi giorni di vita ricorda che l’unica persona della famiglia a farle visita a casa o all’ospedale era proprio il nipote Edoardo: «Era l’unico di cui lei si fidasse. Non ricordo di aver visto nessun altro parente vicino a lei in quel periodo».
Il testamento contestato dalla sorella Paola fu firmato a luglio del 2006. «A quel punto la Fallaci era ancora mentalmente capace di intendere?», domando. «Nelle ultime settimane aveva momenti di disorientamento, ma per lo più era lucida. Il problema è che non credo fosse preparata ad affrontare la questione dell’eredità ed è come se alla fine, nel marasma, avesse tentato di risolvere la questione di corsa. Non escludo che le cose non siano state fatte a regola d’arte e che, al di là di quelle che fossero davvero le sue volontà, non ci sia spazio per contestare quel testamento».