Silvia Giacomelli, Vanity Fair n.29 20/7/2011, 20 luglio 2011
NON HAI I SOLDI PER LE TASSE? DIVENTA UNA CAVIA UMANA
La sala d’aspetto è affollata: quindici persone assiepate in dieci metri quadri. I volti assonnati, segnati da occhiaie profonde. Tutti hanno un ago infilato nel braccio e scattano in piedi a turno, quando un infermiere li chiama. Non per nome, ma per numero: lo stesso scritto sul tesserino che portano al collo.
Non sono neanche le otto del mattino e l’attività è già frenetica: un prelievo a testa ogni cinque minuti, e poi via con la misteriosa pillola da prendere, e il medico lì a controllare che sia andata giù davvero. Ma non si tratta di un medicinale qualunque, bensì di una nuova composizione mai testata sull’uomo. E i quindici nella sala d’attesa non sono i pazienti di un comune ospedale, ma cavie umane, ricoverate in una clinica privata svizzera.
Trovarla non è stato semplice: tutto avviene con il passaparola. E così quando arrivo ad Arzo – un paesino da mille anime a dieci minuti dal confine italiano, nel Canton Ticino – chiedo a un passante: «Sa qual è la clinica dove cercano cavie umane?». Il signore, senza scomporsi, mi indica un edificio giallo in fondo alla strada principale; sull’insegna c’è scritto Cross Research - Clinical Unit. Scopro che ce n’è anche un’altra pochi chilometri più avanti, e anche lì sperimentano nuovi farmaci: la cosiddetta «fase uno», quella in cui prima di verificare l’efficacia del principio attivo, se ne valutano sicurezza e metabolismo. Non più sugli animali, ma su veri «pazienti» sani.
Dei circa 500 «volontari» che ogni anno si prestano al ruolo di cavia, pratica del tutto legale, circa 400 sono italiani, oltre l’85%. E tutti lo fanno per soldi, tanto più in un momento di grave crisi economica come questa. Perché qui ogni ricovero è ben remunerato: circa 600 euro per trascorrere due notti in clinica. Ci trovi la giovane mamma disoccupata con il marito operaio, l’architetto in stage non retribuito da due anni, l’avvocato habitué delle sperimentazioni che in dieci anni calcola di «aver portato a casa sui 25 mila euro». Molti lo considerano un secondo lavoro: «Faccio uno studio ogni quattro mesi, per legge di più non si può», mi spiega Pietro, impiegato di 35 anni che ha confidenza con tutti gli infermieri, «significa un’entrata extra di 2/3mila euro l’anno con cui mi tolgo qualche sfizio». Floriana, interprete 29enne, si augura invece che ogni volta sia l’ultima: ha il terrore degli aghi e per non vedere quello che deve tenere infilato nel braccio dodici ore lo copre con una benda. Durante i prelievi a volte sviene. Lavora al tribunale di Milano, mi racconta che non la pagano con puntualità e per questo ha iniziato a venire in clinica: «Con questi soldi ci pago le tasse, ma l’altra estate mi sono finanziata pure una vacanza in Brasile e prima ancora delle cure mediche».
È tardo pomeriggio: ventiquattro ore e sedici prelievi di sangue dopo il mio ingresso, lascio la clinica. L’infermiere mi restituisce le chiavi dell’auto, che sequestrano a tutti all’arrivo, e mi dà un foglio, si raccomanda che lo porti con me nei prossimi giorni. Leggo: «Il possessore della presente tessera sta partecipando alla sperimentazione clinica n. CRK-ST-250, regolarmente autorizzata dalle autorità del Canton Ticino. In caso di ricovero in ospedale vi preghiamo di contattare i medici responsabili a questi recapiti…».
Spero sia soltanto una formalità, e lo infilo in borsa insieme ai 600 euro in contanti che mi hanno appena consegnato.