Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  luglio 21 Giovedì calendario

NELLE LIBRERIE NAZI SPOPOLAVA LA FANTASCIENZA


È stato da tempo appurato che il programma ideologico del nazionalsocialismo è consistito di un amalgama di diverse correnti spirituali. Meno noto (e accettato) è il fatto che il paesaggio culturale del Terzo Reich non possa essere reso in alcun modo con un’immagine di compattezza e uniformità. E se il controllo della quotidianità era l’obiettivo del regime, bisogna dire che quel progetto fallì in particolare nel contesto editoriale. Questo sebbene fin dal 1927 i nazisti avessero fondato, sotto la guida di Alfred Rosenberg, un “Fascio per la cultura tedesca”. I problemi emersero già dal 1933, l’anno della presa del potere, perché il ricco e articolato sistema editoriale tedesco si vide consegnato nelle mani di molte e discordanti istituzioni impegnate a vario titolo nel controllo e nella censura: il ministero per l’Educazione, quello per gli Interni e la Propaganda, l’ufficio di Rosenberg, le amministrazioni provinciali e dei Länder, le commissioni culturali del partito nazista, l’associazione “Energia e gioia”, varie associazioni di docenti e studenti ecc.
Insomma, una baraonda, tanto che a neppure un anno dall’ascesa al potere di Hitler un libraio si lamentò pubblicamente del divieto di vendita emesso per oltre mille titoli da 21 uffici diversi. Ci sarebbe voluta un’unica autorità, suggeriva quel libraio, ma un ufficio centrale di controllo sull’editoria non ci fu mai durante l’intero Terzo Reich. O meglio, solo nel 1941, dunque a guerra iniziata e in relazione alla difficoltà nel reperimento della carta, venne costituito l’Ufficio Economico del Commercio Librario Tedesco, che esercitò un più rigido controllo sulla concessione dei permessi e dunque sui divieti alla pubblicazione.
In questo contesto s’inserisce il recente libro di Christian Adam, Leggere sotto Hitler (Verlag Galliani, pp. 304, euro 19,95), che si concentra in particolare su quali siano stati gli autori più amati dai tedeschi durante il Terzo Reich e quali i bestseller. Peccato che i giudizi espressi siano stilati spesso secondo categorie interpretative contemporanee, senza un particolare sforzo di comprensione del contesto storico.
A proposito dei libri pubblicati in Germania tra il 1933 e il 1945, Adam ammette non esserci stata una direzione unitaria stabilita dal potere nazionalsocialista. L’autore dichiara di aver cercato di individuare una politica culturale nazista, ma inutilmente, e questo per uno Stato totalitario è sorprendente. Dalla sua analisi si apprende che il Mein Kampf di Hitler, uscito in due volumi tra il 1926 e il 1927, fino alla conclusione della guerra vendette 12,5 milioni di copie, restando costantemente in testa alle vendite (peccato non venga specificato se in quel numero sono comprese anche le numerose edizioni edite fuori di Germania), ma anche che la maggior parte dei bestseller che raggiunsero una tiratura di almeno 100.000 copie nulla avevano a che fare con qualcosa che si potesse definire “letteratura nazionalsocialista”.
Particolarmente amati, già allora, i romanzi di science fiction, su tutti Il paese d’acqua e di fuoco (250.000 copie tirate) di Hans Dominik, che fu autore di altri tre titoli analoghi capaci di superare le 100.000 copie. Sorprendente fu il successo di alcuni saggi aventi per oggetto temi legati allo sviluppo della tecnica, e tra questi Adam segnala in particolare Anilina di Karl Aloys Schenzinger, pubblicato nel 1937 e capace di vendere in otto anni oltre 920.000 copie.
Relativamente agli anni bellici, se è vero che dall’inizio della guerra i libri vennero usati come fermento per la mobilitazione ideologica (l’ordine era di spedirli al fronte, ma le statistiche dicono che solo il 5% dei soldati era interessato alla lettura della propaganda hitleriana), in realtà anche durante il drammatico epilogo del Reich il complesso mercato librario tedesco fu tutt’altro che solo un’agenzia di rifornimento di testi culturalmente ispirati al binomio “sangue e terra” (Blut und Boden).
Quanto ai detentori del potere di allora, va ricordato come essi amassero scrivere e pubblicare i loro ricordi. Così Joseph Goebbels, con il suo diario, redatto tra il gennaio 1933 e il maggio 1934, raggiunse una tiratura di 660.000 copie. Altrettanto interessante è il capitolo dedicato alle letture che più interessavano i gerarchi: Hitler amava in particolare May, Schwab, Goethe, Dante, Schopenhauer e Nietzsche. Himmler invece, che aveva una formazione più marcatamente borghese, si lasciava prendere dalla lettura di Verne, Wedekind, Thomas Mann, Dumas, Zola, Gogol, Dostoevskij, ma anche di Ibsen e Wilde.
Piuttosto superficiale appare il giudizio di Adam a proposito dei numerosi titoli che proponevano crude storie e memorie risalenti alla Prima guerra mondiale. Ecco alcuni titoli: Fuoco di sbarramento intorno alla Germania di Werner Beumelburg (363.000 copie), Il viandante tra i due mondi di Walter Flex (622.000), Verdun. Il grande tribunale di P.C. Ettighoffer (304.000 copie). Piuttosto che ammettere che quei libri erano molto lontani dal patriottismo del 1914 e piuttosto rappresentavano senza edulcorazioni la guerra nella sua efferatezza, Adam preferisce lamentare il fatto che quei libri non fossero «pacifisti».
In definitiva, come ha scritto Harro Zimmermann per Die Welt, questo libro di Adam documenta in maniera esaustiva come, «per quanto sia stata catastrofica la rottura di civiltà provocata dai nazisti, essa non fu così profonda da poter espellere durevolmente la caparbietà dalla testa dei lettori e degli autori tedeschi».

Vito Punzi