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 2011  luglio 21 Giovedì calendario

IL MONDO DI MAGRIS

Poteva succedere soltanto al Caffè San Marco di Trieste, dove Claudio Magris è di casa. Non c’era luogo altrettanto adatto in cui incontrarlo, spingerlo a parlare di sé e delle proprie convinzioni profonde, incalzarlo e poi fermarlo sulla carta prima che il suo carattere erratico lo richiamasse altrove.
E infatti così è andata: Marco Alloni, che ha conosciuto lo scrittore triestino durante la sua lunga esperienza giornalistica in Egitto, ha realizzato con lui un libro intervista ((Claudio Magris. Se non siamo innocenti, Aliberti, pagine 96, e 10, apparsa parzialmente tre anni fa in Svizzera per la Adv e da oggi in libreria) dove sembra realizzarsi una specie di quadratura del cerchio. Dal microcosmo del caffè la conversazione si allarga all’universo interiore dell’uomo Magris, in una cavalcata veloce ma dal ritmo serrato, in cui risalta quella capacità tipica dello scrittore di risalire dal particolare all’universale, da un’angolazione periferica al cuore delle cose.
Certo, il dialogo avrebbe potuto svolgersi anche altrove: davanti al mercato vecchio di Cracovia o al cimitero ebraico a Praga, in una pasticceria di Budapest o tra le isolette della laguna di Grado. I marmi del caffè Loos a Vienna, un molo assolato di Fiume, il mare delle dalmate Isole Incoronate da contemplarsi sdraiati, orizzontali alle onde, avrebbero potuto funzionare altrettanto bene da sfondo. Ma certo, il Caffè San Marco più di ogni altro luogo è casa sua, un po’ come se gli stucchi e le tazzine riverberassero qualcosa de Il mito absburgico o di Danubio, e non per caso laggiù si è svolto il colloquio.
La nota insolita di Se non siamo innocenti è dovuta al carattere del discorso: più che letterario, morale. Proprio il territorio, dunque, che in genere gli scrittori cercano di sfuggire, spaventati dal rischio di confondere etica ed arte, e sul quale invece Magris si trova perfettamente a suo agio. Essere un intellettuale «morale» , per Magris, vuol dire anzitutto non tradire la realtà che lo circonda: «A volte bisogna sapere far fronte, anche se ciò pregiudica la nostra vita» . Dunque ci vuole un coraggio che lo scrittore ammette candidamente di non possedere, pur avendone ereditato dai genitori abbastanza da sfuggire la vergogna dell’accidia. D’altra parte, confessa, prima o poi scatta sempre in lui l’indignazione, il rifiuto della volgarità, il no al conformismo che lo induce a prendere posizione. E questo accade, ricorda, anche per merito di una scena «grandiosa» cui assistette in anni lontani al liceo, quando il suo professore di tedesco finse di tollerare lo scherno e le umiliazioni che un bullo infliggeva a un compagno più debole, per poi rendergli clamorosamente, e davanti a tutta la classe, pan per focaccia.
Poi viene, su un piano più intimo e religioso, la faccenda della «veste candida» . Con questa espressione Magris intende criticare l’aspirazione di molti cattolici a non lasciarsi contaminare dal male del mondo. E invece no, secondo lo scrittore «la vita non è innocente» (ecco il senso del titolo) perché il peccato originale è sempre presente, tanto che persino la banana che si sbuccia, dall’apparenza innocua, può rivelarsi l’ultimo anello di una catena di violenze e ingiustizie. Noi non ne siamo direttamente consapevoli, d’accordo, eppure in quanto uomini portiamo su di noi il segno della colpa. Meglio non preoccuparsi di indossare sempre una «veste candida» , dunque; meglio «sporcarla, per fasciare una ferita o pulire un pavimento» .
Qui bisogna aggiungere che per Magris conta più il peccato in sé che l’infrazione alla legge (in questo fedele alla lezione di Franz Kafka). Se da un lato confessa di «leggere quasi ogni giorno il Vangelo» , aggiunge di preferire alla pratica religiosa tradizionale il gusto per «la vicinanza tra chiesa e osteria, tra pane e vino» , e anche la meditazione occasionale nelle «chiese con le porte aperte, in cui uno va a sedersi un momento davanti a una vecchia immagine...» .
Ma per carità, niente religiosità optional, per Magris, niente miscugli spirituali dove «uno prende così, piluccando, rigettando un elemento o l’altro come gli pare e piace» ; niente «tre etti di buddismo qui e due zollette di cristianesimo là... niente New Age» . Del resto anche l’idea dell’aldilà che si coglie nelle sue parole, magari anche in quelle appena sussurrate, è ortodossa: un luogo dove si ritrovano i propri cari, una comunità più ampia dove sarà possibile «rivedere anche l’amatissimo porcellino d’India» , di cui parla in Danubio.
L’altra metà dell’intervista, quasi un autoritratto intellettuale di Magris, si snoda invece intorno agli scrittori e ai temi che lo hanno ispirato «nella sfera morale» . E tra questi in prima linea troviamo i Salgari, Melville e Stevenson letti in gioventù; il Tolstoj di Guerra e Pace; i Cervantes e Kipling, nonché — passando a tutt’altra temperie culturale— i saggi che esprimono L «etica della responsabilità» in Max Weber. Senza dimenticare un filone diversissimo che gli deriva dal conterraneo Italo Svevo, «quello dell’ambiguità, del nichilismo, del nulla, dell’infinita cedevolezza delle cose umane» .
Ed eccoci a un’altra, significativa dimensione intima di Magris: la sua contraddizione interiore— per dirlo con l’amato scrittore Ernesto Sabato — tra anima «diurna» e «notturna» , tra il modello di Tolstoj e quello di Svevo. È una lacerazione profonda, ma non irrimediabile. Infatti Magris coltiva l’ambizione «di sanare la dicotomia tra senso forte della vita e senso debole, ironico» . Conseguente, il richiamo al suo famoso «mito absburgico» : non favola nostalgica, ma «sentimento mitteleuropeo di aggrapparsi a un’unità del mondo rappresentata dall’Impero, pur sentendolo franare» . Non solo fedeltà autobiografica a un passato di cui gli italiani orientali sono figli, dunque, ma soprattutto sforzo di «mantenere insieme unità e frammentazione» .
Si entra così, come in punta di piedi, nella parte conclusiva del libro intervista, proprio all’interno del laboratorio di Magris, il luogo dove il suo particolare modo di valutare, descrivere e narrare, prende forma. Apprendiamo qui, dalle sue stesse parole, che il «mondo notturno» non è un impulso psichico liberato dalle censure dell’Ego, ma la capacità di mettere in rilievo «il dettaglio, spesso tragico, vissuto nell’assolutezza e quasi irrelato dal tutto» . Mentre quello «diurno» , al contrario, ha significato soltanto nella cornice della quotidianità, «nell’insieme del mondo» . Liberi noi lettori, naturalmente, di preferire l’uno o l’altro Magris, diurno o notturno, o ancora quello temperato e autoironico che cerca sempre di tenere in equilibrio i due momenti.
Poi, ogni tanto, nella conversazione fa capolino una certa «tentazione della morte» . Ma è solo un accenno, subito smentito dal gusto per il vivere semplice e immediato, i bagni di mare e le birrerie, il viaggio, la scoperta della femminilità. Niente ripiegamenti crepuscolari, insomma. Perché il quotidiano reclama costantemente lo scrittore: «Soprattutto nella misura brevissima tipica dell’articolo c’è qualche volta una specie di automatismo superiore che ci aiuta a tirar fuori da noi — anche nei momenti di crisi— il meglio» .
Dario Fertilio