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 2011  luglio 21 Giovedì calendario

I TORMENTI DI SCERBANENCO

Prolifico scrittore, giornalista e di­rettore di riviste femminili, Gior­gio Scerbanenco, nato il 26 luglio 1911 a Kiev, in Ucraina, ma di adozione e formazione milanese, è considerato il padre del noir italiano. Leggendo i suoi romanzi che raccontano con un ritmo da thriller cinematografico storie effe­rate e crudissime dove dominano ladri, assassini e traditori, o carabinieri «in­naffiati di proiettili», non può sfuggire la discrezione con la quale si rivolge al lettore. Un garbo inaspettato nella let­teratura di genere. Scerbanenco è sem­pre diretto, ha uno stile asciutto, senza sfumature. Eppure traspare nel suo scrivere una passione per la vita e per il destino dell’uomo. C’è quasi la sottile, implicita ricerca di un “Oltre” nel rap­presentare “con amore” fatti truci e personaggi abietti. Viene da chiedersi quale rapporto avesse con la fede, l’au­tore di La sabbia non ricorda e I ragazzi del massacro. Il centenario della nasci­ta ci offre, allora, l’occasione per tenta­re una risposta. A partire dalle sue vi­cende umane e professionali.
Con la solita eleganza anticonvenzio­nale Scerbanenco rispondeva alla po­sta delle lettrici sui settimanali “Anna­bella”, “Novella” e “Bella”. Una volta gli capitò la missiva, anonima e senza in­dirizzo, di una madre ventenne alla quale era morto l’adorato marito. Il suo bambino continuava a chiamare papà e per tranquillizzarlo lei si affacciava o­gni giorno alla finestra tenendolo in braccio e fingendo un’inutile attesa.
Così il bimbo si calmava un po’. Ma la ragazza non era più in grado di reggere quell’assurda situazione e confessò ad Adrian (lo pseudonimo usato dallo scrittore nella rubrica) l’intenzione di morire insieme con il piccolo. «Rilessi per quattro volte la lettera, nel punto principale, intorno a quel “vorrei mori­re” - ricorda Scerbanenco nell’autobio­grafia Viaggio in una vita - poi comin­ciai a scrivere la risposta da pubblicare sul giornale». Tanta gente dice, in un momento di sconforto o per puro esi­bizionismo, che vorrebbe suicidarsi.
Scerbanenco lo sapeva. Si era accorto però che quella donna aveva usato pa­role «con il tono lucido di chi ha già de­ciso e non può, anche se lo volesse, tornare indietro». Si sentiva - ha rac­contato - «come chi vuole mettere una mano davanti a una locomotiva in cor­sa ». Ma ci provò. Pur sapendo che in questi casi contano di più una voce calda, un abbraccio, una carezza.
«Mandai subito la riposta in tipografia - ricorda lo scrittore - la feci pubblicare con precedenza assoluta… ma doveva­no passare giorni prima che venisse stampata e che la donna potesse legge­re la mia risposta che tentava di fer­marla. Se mai avesse potuto leggerla».
Scerbanenco non seppe nulla della giovane per mesi finché da un ritaglio di stampa non apprese che a un pro­cesso i giudici avevano assolto una mamma che prese troppo sonnifero somministrandone anche al bambino: lei si giustificò dicendo che non riusci­va a dormire da quando le era morto il marito. Lo scrittore capì che era lei. Vi­va. Anche se la sua lettera, che di sicuro aveva letto perché venne esibita in tri­bunale, non era riuscita a fermarne il proposito. Forse, però, lo aveva affievo­lito.
Un caso simile gli si presentò più avan­ti: una signora di una certa età, sola e delusa per un amore finito male, mani­festò l’intenzione di uccidersi. Aveva dato nome e indirizzo e “Adrian”, ca­parbiamente, le scrisse, più volte, in privato (senza ricorrere al giornale), per farla recedere dalla decisione. E vi riuscì, stavolta, lentamente, sentendo piegare a ogni risposta il suo desiderio di morte. Lui, che aveva sofferto e visto gli orrori della guerra, sapeva dare un valore alla vita. E la difendeva. Senza sottrarsi al compito di raccontare la morte voluta dall’uomo che fugge da se stesso. Perché, diceva, «la vita è un pozzo delle meraviglie; c’è dentro di tutto: stracci, brillanti e coltellate in go­la».
Ma per comprendere meglio quel tor­mento che sembrava muovere l’anima dello scrittore, è necessario addentrarsi nel saggio sulla condizione umana Il mestiere di uomo , in cui Scerbanenco indaga su speranza, felicità, libertà, di­gnità, coscienza morale e destino. Il volume (edito in Italia da Aragno) rac­coglie il carteggio con un parroco di Poschiavo, don Felice Menghini, e gli articoli scritti su un periodico cattolico dei Grigioni durante il suo esilio volon­tario in Svizzera per sfuggire ai fascisti.

Il rapporto con il sacerdote diventa co­sì intenso e affettuoso che don Felice afferma di avere spiritualmente vicino il suo sensibilissimo amico romanzie­re. Alla fine di un fitto scambio episto­lare, nel quale il prete cerca di portarlo sul terreno della fede, Scerbanenco, che prima si dichiarava agnostico, arri­va a dire: «La fede non si raggiunge con la dialettica, e neppure la verità, qua­lunque essa sia. Occorre la Grazia, co­me mi disse lei e imparai subito. (...) Ma la Grazia non può operare finché la vita è una lotta a col­tello ». Tanto da scrivergli, in oc­casione della Pasqua: «Il Signo­re è con lei. Ma è pure con me, anche se io dico di non saperlo. Egli deve essere con tutti gli uo­mini ». E, ancora, otto mesi dopo: «Ca­rissimo, il suo libro da messa è con me, e lo trovo sempre più bello. Io abito vi­cino al Duomo e basta che scenda per­ché veda la chiesa e la Madonnina, e allora vedo anche lei e le suore di San Sisto che ricordo tutte, una a una...».
Un passaggio della sua autobiografia è dedicato all’anima: «Per tutta la vita guardiamo il viso degli altri e li giudi­chiamo. Ma dopo 40 anni vissuti senza freni e in modo dissoluto un tale si converte. Sul suo viso sono impressi i segni dell’immoralità e del cinismo. Eppure ora egli è morale e devoto. Se guardassimo solo il volto ce ne allonta­neremmo. Ma ascoltiamo la ragione e ne diventeremo amici».