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 2011  luglio 21 Giovedì calendario

RUSSIA, DOVE L’AMIANTO È UN AFFARE

La roccia è verde scuro e declina spes­so verso il nero. Basta una chiave di ca­sa per scalfirla e far apparire minuscole fibre bianche che sembrano uscite da un go­mitolo. «Ecco l’amianto», sorride Alexander con quell’orgoglio tipico della gente di Rus­sia, che è un lascito dell’«epopea socialista» e ancora unisce il Paese dall’Europa all’o­ceano Pacifico. Le sue dita accarezzano la pietra come fos­se un bambino. Sul volto nessuna masche­rina lo protegge dai filamenti di silicato che uccidono devastando i polmoni e l’Unione europea ha messo al bando dal 2005. Ma qui sugli Urali l’amianto è di casa. Ed è un pa­trimonio da difendere a denti stretti. Perché dà lavoro alle aziende della regione di Sverd­lovsk e fa vivere un’intera cittadina di 75 mi­la abitanti: Asbest. Sì, si chiama proprio «a­mianto » questo Comune a 80 chilometri da Ekaterinburg che deve tutto al più grande giacimento al mondo della fibra «inestin­guibile ». Definizione romantica per un mi­nerale che la Russia non ha mai inserito nel­la lista nera dei materia­li da vietare e che, anzi, è un vanto nazionale.
«Il nostro Paese è il pri­mo produttore del pia­neta e non abbiamo niente da nascondere», aggiunge Alexander in­dicando dall’alto la mi­niera che regge l’econo­mia di Asbest. È una con­ca a terrazze lunga dieci chilometri e larga tre, che ogni anno produce 500 mila tonnellate di ’pol­vere’ capace di resistere al calore e agli agenti chimici. Fino al 1885, Asbest non esisteva. Poi è stato scoperto quel tesoro sotterraneo. E le foreste di betulle che segnano il paesaggio degli Urali hanno la­sciato il posto a una cava dai lineamenti lu­nari che oggi dà uno stipendio a 10 mila la­voratori. A conti fatti, comunque, tre fami­glie su quattro della cittadina hanno a che fare con la fibra, fra miniera, industrie di tra­sformazione e aziende di derivati.
L’ingresso del sito è presidiato come una ca­serma: torretta di sorveglianza, sbarra sem­pre abbassata, tre agenti di guardia che vi­gilano su auto e camion. Quando ci affac­ciamo sulla fossa profonda duecento metri, dodici pale meccaniche stanno divorando le pareti. Raccolgono ciò che la natura ha regalato a questo angolo di Russia. Un tre­no con dieci vagoni fa la spola fra la cava e i due stabilimenti che separano la fibra dalla «pietra vuota», come ci tiene a precisare A­lexander.
Nella toponomastica locale gli impianti non hanno nomi, ma numeri: quelli in funzione sono il «6» e il «2». I carichi vengono maci­nati e ridotti in poltiglia a ciclo continuo. E l’amianto appare soffiando via il pietrisco di scarto. L’ultima fase è l’imballaggio. Il pulvi­scolo fossile finisce in sacchi dai 15 ai 50 chi­li che «per metà restano in Russia e per il re­sto vengono esportati in quaranta Paesi, a cominciare da Cina e India», racconta il sin­daco Vladimir Susloparov, eletto da appena un anno. Dal suo ufficio, al primo piano del municipio, mostra i tetti del centro di A­sbest. «Sono d’amianto». E i rischi per la salute? «Soltan­to propaganda – taglia corto – i nostri dati clinici confer­mano che qui la mortalità dovuta a malattie oncologi­che è inferiore dell’8 per cen­to rispetto agli indici nazio­nali e la durata della vita è ad­dirittura superiore alla me­dia regionale». Oltre confine, però, la città fa i conti con dif­fidenze e critiche. «Dall’este­ro si arriva per condannare le nostre scelte di continuare a investire sul­la fibra – spiega il primo cittadino. – Ma, se volete la mia opinione, dico che la campa­gna contro l’amianto è una ritorsione. Esat­tamente una ritorsione degli Stati che non hanno depositi come il nostro e che voglio­no favorire le loro industrie chimiche per commercializzare i surrogati dell’amianto». Ad Asbest la polvere cancerogena è come un totem. La definiscono «kudelka» che vuol dire «filato di lana». Così si chiamava anche il vil­laggio quando è stato fondato, prima di pren­dere il nome attuale che – per chi arriva dall’Italia – rimanda alla malattia respiratoria dell’asbe­stosi. A scuola i ragazzi elogiano la «naturale pu­rezza » della fibra locale con le poesie. Due musei ne ripercorrono la storia e ne descrivono la note­vole varietà di dimensioni estratte nella mi­niera. L’indotto è un pullulare di ditte che producono freni, asfalto o isolanti. E i com­plessi industriali abbandonati che si incro­ciano in auto sono la testimonianza di quan­to l’escavazione abbia inciso sulla città.
Ora il fulcro è la società per azioni «Urala­sbest » che controlla il giacimento e che nel­le sue pubblicazioni annuncia di poter con­tinuare a scavare il minerale per centocin­quanta anni. Nel quartier generale fanno bella mostra attestati e certificazioni come quella «Iso 9001» sulla garanzia di qualità o i diplomi (russi) sulla «tutela sanitaria». «Quando qualcuno viene invitato a usare tu­te di protezione o guanti da lavoro, resta stu­pito – racconta l’editore e direttore del gior­nale locale Tevicom , Andrey Oboskalov –. In­fatti i nostri circoli scientifici hanno dimo­strato che l’amianto di Asbest, il crisotilo, non è pericoloso». Peccato che rappresenti il 75 per cento di quello estratto. «Certo, sap­piamo bene che è fonte di malattie – prose­gue il giornalista – ma, un paio di mesi fa, la città ha ospitato una conferenza sulla sicu­rezza della fibra da cui è emerso come il no­stro amianto abbia la particolare caratteri­stica di essere inerte». E le morti che nel re­sto del mondo vengono denunciate? «Ci te­niamo alla nostra incolumità. Però, se lumi­nari e specialisti accertano che il serpenti­no di Asbest non fa male, perché non do­vremmo credere alle loro ricerche?».