Michele Salvati, Corriere della Sera 20/07/2011, 20 luglio 2011
LE VERITÀ NASCOSTE
Forse il guasto maggiore prodotto da chi ha governato l’Italia in questi ultimi dieci anni è stato quello di non aver fatto capire agli italiani quanto compromessa fosse la situazione che la Seconda Repubblica aveva ricevuto in eredità dalla Prima, quanto difficili fossero le riforme necessarie ad allinearci con i nostri grandi partner europei e soprattutto quanto lungo fosse il tempo necessario affinché queste riforme sbloccassero il ristagno economico in cui eravamo caduti. Reagendo all’emergenza della crisi del 1992, era iniziato un percorso riformatore coraggioso. Una volta entrati nella moneta unica, al timore del collasso subentrò tuttavia un atteggiamento di «passata la festa, gabbato lo santo» , la sensazione che il difficile era fatto, che la strada era in discesa. No, il difficile veniva allora. Alla conservazione degli equilibri fiscali raggiunti doveva sommarsi un doloroso lavoro di bisturi e ricostruzione plastica in molti settori pubblici e privati allo scopo di elevarne l’efficienza e la produttività. Lavoro difficile, impopolare e lungo, come lento sarebbe stato il suo esito sulla crescita economica. Si fece assai poco e persino gli elevati attivi primari raggiunti alla fine del secolo scorso — necessari per ridurre il debito pubblico — vennero azzerati in questo da una sconsiderata crescita della spesa corrente. Ma forse ancor più irresponsabile dell’inazione dei governi, della loro incapacità di affrontare riforme difficili e impopolari, fu l’atteggiamento che i loro leader principali contribuirono a diffondere nell’opinione pubblica: «tout va bien, madame la marquise» , la nostra industria reagisce gagliardamente alle sfide della globalizzazione, i settori protetti dalla concorrenza estera non hanno bisogno di interventi che ne sconvolgano gli equilibri, la previdenza non richiede ulteriori riforme e, se qualcosa va fatto, ci si deve limitare alla legislazione del lavoro e al complesso del settore pubblico. Se poi qualcuno faceva notare che la produzione non cresceva, che la produttività era ferma, che le esportazioni non andavano bene, si replicava elencando numerosi casi singoli di successo — ci sono sempre, anche quando le cose van male— e criticando le statistiche generali. Capisco che i governi apprezzino l’ottimismo, ma c’è un limite oltre il quale esso sconfina nell’irresponsabilità. Il Tremonti della XIV legislatura e dell’inizio di questa era assai più ottimista di quello che oggi parla di un ballo nei saloni del Titanic, ma la rotta dell’Italia era la stessa e doveva essergli noto che presto o tardi il nostro Paese sarebbe andato a sbattere contro un iceberg. Che si fa, adesso? Chi va a dire la verità agli italiani, che li aspetta un lungo periodo di vacche magre, che i sacrifici — e poi, come saranno distribuiti?— si fanno adesso e la crescita sarà lenta a venire? Le opposizioni hanno dato prova di responsabilità a inghiottire una manovra i cui saldi cambiavano in continuazione, il cui peso si è spostato dalla riduzione delle spese all’aumento delle entrate e, soprattutto, si è spostato in modo regressivo, tagliando indiscriminatamente del 20%le agevolazioni fiscali a vantaggio delle famiglie. Ma questo atto di responsabilità non basta a fare delle attuali opposizioni, divise al loro interno e confuse nei loro indirizzi sino ad un recente passato— se si fossero mosse diversamente, la manovra poteva forse essere migliore —, il soggetto di cui tutti gli italiani si possano fidare.
Né l’attuale governo, né le opposizioni hanno l’autorevolezza per fare agli italiani un discorso di verità, per proporre credibilmente un percorso di riforme che servano non soltanto a sventare gli attacchi speculativi di oggi, ma a porre i fondamenti della crescita di domani. Autorevolezza e credibilità disperatamente cercansi e forse è per questo che si sente tanto parlare di un governo del Presidente e si ricorda l’esperienza del governo Dini e il ruolo che il presidente della Repubblica giocò nella sua formazione. Ma quell’esperienza ci ricorda anche quanto la situazione sia oggi diversa da allora. Da un punto di vista politico, anzitutto: allora si era molto vicini al trauma di Mani pulite, il sistema dei partiti non si era ancora assestato e si era in presenza di una vistosa spaccatura all’interno della duplice coalizione con la quale Berlusconi aveva vinto le elezioni del 1994. Oggi i principali partiti si sono consolidati e l’iniziativa di Fini è stata insufficiente a mettere in minoranza il governo. Ancor più diversa (e più difficile) è la situazione da un punto di vista economico. Allora si poteva giocare su una strategia lineare, già preparata dai governi di Amato e Ciampi, che aveva l’ingresso nella moneta unica come obiettivo e una straordinaria svalutazione reale come propellente della crescita. Quell’obiettivo è stato raggiunto, il propellente di ieri non è più utilizzabile e quello di oggi — il bisturi e la chirurgia plastica di cui dicevo— meno efficace nel breve periodo e con costi politici maggiori, anche se più promettente nel periodo lungo. Quale assetto politico sia in grado di affrontare il trilemma tra rigore, crescita ed equità che i governi della Seconda Repubblica sono stati incapaci di risolvere, è ancora nel grembo della storia, maestra di sorprese.
Michele Salvati