Marco Belpoliti, La Stampa 17/7/2011, 17 luglio 2011
OGGI L’APPETITO VIEN GUARDANDO
Il design sta cambiando il mondo più di quanto ci rendiamo conto. Lo scrive Paola Antonelli, curatrice del MoMA: «Nei prossimi decenni il resto del mondo si metterà alla pari e il design diventerà la metodologia e la filosofia dei politici, scienziati ed economisti desiderosi di adottare una prospettiva umana, olistica e costruttiva». Il design non dà più solo forma agli oggetti e ai mobili che usiamo ogni giorno, ma riguarda il campo dell’interazione, le interfacce, il web, le rappresentazioni grafiche, e anche le infrastrutture, oltre ovviamente al nostro stesso corpo. Un esempio eloquente è fornito dal «food design».
Il cibo, come si sa, non è più quello di una volta; non per via di una qualche manipolazione alimentare, ma per il suo aspetto visivo. Ha ora una forma post-artificiale. Stefano Maffei e Barbara Parini in «Food Mood» (Electa) ci fanno da mentori nella visita guidata a questa mutazione: Foodpeople, Foodexperience, Foodproducts. Partiamo dalle attività che un tempo si connettevano al cibo. Michael Pollan, autore de «Il dilemma dell’onnivoro» (Adelphi) lo racconta così: ieri i verbi della nostra relazione col cibo erano: coltivare, raccogliere, cacciare, pescare, conservare, trasformare, mangiare, utilizzare gli scarti. Ora sono: acquistare, conservare, mangiare.
Siamo distanti due passaggi da quel mondo che Piero Camporesi ha raccontato nei libri dedicati al mondo preindustriale e contadino. A metà degli Anni 50 in Italia si sono rotti i cicli e le tradizioni alimentari che funzionavano da centinaia, forse migliaia di anni; è entrata in scena l’industrializzazione con la globalizzazione progressiva delle catene alimentari. L’effetto è stato quello di trasformare in profondità i legami sociali, culturali, economici e produttivi: la sessualità e insieme il cibo. Le tecnologie sono diventare importanti per definire l’alimentazione; prima hanno agito sul colore, l’odore, la consistenza, poi sulla «forma». Poi è iniziata la progressiva estetizzazione di ogni attività umana; l’arte è diventata parte del «food design» sin dagli Anni 90. A quel punto si è modificata la stessa ristorazione e sono apparsi i designer dell’esperienza alimentare. Il più celebre è Ferran Adrià con il suo decalogo «Síntesis de nueva cocina», la cui prima frase recita: «La cucina è un linguaggio mediante il quale si può esprimere armonia, creatività, felicità, bellezza, poesia, complessità magia, humor, provocazione». Mentre la più celebre è: «Si cancellano le barriere tra il mondo dolce e quello salato. Importanza del mondo gelato salato e della cucina fredda in generale».
Da Adrià discendono molti dei designer del cibo (chiamarli cuochi è limitativo) censiti dal libro edito da Electa: Massimiliano Alajmo, Jaua Marì Arzan, Alex Atala, Dan Barber, Heston Blumenthal, Massimo Bottura, Carlo Cracco, e altri ancora. Questa è la cucina post-post-industriale, fondata sugli sperimentatori della «foodexperience», che varcano il confine che lega gli atti alimentari alla cucina stessa. Un altro esempio: Alajmo con Lorenzo Dante Ferro, maestro profumiere, ha creato una linea di «profumi edibili», estraendo dalla cucina gli ingredienti utilizzati per racchiuderle in boccette; così l’essenza in forma spray può essere spruzzata sui cibi e piatti in modo controllato. La tendenza è, come nel caso di Arzak, designer basco, a superare il legame tra cibo e gusto nella direzione dell’«esperienza multisensoriale». Azar ha creato una banca dei sapori. Questo cambio di paradigma alimentare è simile a quello che il gruppo Alchimia (Sottsass, Mendini, De Lucchi e altri) ha realizzato nel design degli oggetti a fine Anni 70.
Adrià, che ha aperto una propria scuola-fondazione, Fondazione Alicia, collabora con uno scienziato, Pere Castell, nella creazione di un «lessico scientifico e gastronomico»: un ponte tra scienza alimentare e cultura della cucina. Il passaggio è dunque al post-artificiale: il cibo non si smaterializza, ma assume la forma di un «oggetto», in cui naturale e artificiale si fondono. Lo si vede bene guardando le immagini dei cibi di questi «food designer» e osservando l’arredamento e la disposizione dei ristoranti, negozi e supermercati. È come se il cibo portato in tavola avesse ridisegnato i luoghi stessi, e insieme il packaging. Naturalmente molte cose descritte da Maffei e Parini sono differenti tra loro, ma il «frame» costruito dagli autori fa ritenere che queste tendenze, ora riservate all’alta cucina, cambieranno presto le forme della distribuzione alimentare, oltre alla produzione, e le stesse pratiche di attivismo culturale e sociale legate al cibo. È una sorta di social network del cibo che tende al gioco e all’intrattenimento, e che probabilmente vedremo all’ opera nel 2015 all’Expo milanese. Un ulteriore aspetto della trasformazione in atto: l’industria culturale si presenta come la principale forma d’innovazione, e dunque di accumulazione economica, nel regno dell’ immaterialità del XXI secolo.