Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  luglio 17 Domenica calendario

«I MIEI 80 ANNI CERCANDO L’UOMO E IL MISTERO DI DIO» INTERVISTA A ERMANNO OLMI

Tra sette giorni compirà 80 anni. Ne ha spesi oltre 50 a raccontare l’uomo perché, come diceva il suo amico Corrado Stajano, «ha una grandissima capacità di attenzione per gli altri, di rispetto, di curiosità illimita­ta… ». Ha compreso il linguaggio segre­to del cinema facendo diventare le im­magini parola, ci ha parlato sottovoce trasformando il quotidiano in univer­sale. E ha indagato il mistero della vita come pochi registi al mondo. Lo abbia­mo incontrato a Roma, dove è impe­gnato nelle ultime fasi della lavorazio­ne del film Il villaggio di cartone, atte­so fuori concorso al prossimo Festival di Venezia.

Da giovane se la immaginava così la sua età avanzata?

Non ho mai pensato a cosa sarei diven­tato, ero troppo impegnato a vivere il presente. Il cinema però non è mai sta­to una ragione di vita. Lo scopo a cui dedicare la mia esistenza è stata la vita stessa.

In che modo l’ha fatto?

Penso all’immagine di una bolla che rompendosi provoca esplosioni poeti­che lasciando uscire segni della bellez­za del Creato. Ma per coglierla dobbia­mo avere la totale disponibilità a farci sorprendere dalla poesia che è fuori di noi e che ci regala frammenti di felicità.

Cosa l’ha spinta a diventare un regista?

A quattro anni mi sono innamorato del teatro durante una recita all’oratorio della Bovisa, a Milano. Ho scoperto la magia delle luci che si spengono e del sipario che si apre. Poi a 14 anni ho vi­sto

Paisà, Roma città aperta, Sciuscià e le emozioni suscitate da quei film mi crescevano dentro. Quel cinema era un modo per convivere con gli altri invi­tandoli alla propria mensa. Cuciniamo i nostri film sperando in una comunio­ne.

Cosa le ha fatto scoprire di se stesso il cinema?

Il cinema mi ha sempre aiutato a capi­re il passo successivo. Ogni volta che so­no arrivato alla fine di un capitolo ero già proiettato nell’accadimento suc­cessivo, osando cose diverse da quelle che avevo già fatto, nella speranza di farle meglio.

La natura, l’uomo, il lavoro sono sem­pre stati il cuore dei suoi film…

Sono stati prima di tutto il cuore della mia vita. Da bambino non andavo in vacanza. Mio padre era ferroviere, umi­liato dalle condizioni imposte dal par­tito fascista. Non prese la tessera e ri­mase disoccupato due anni prima di essere assunto alla Edison. A casa della nonna materna, in campagna, non c’e­ra niente di meglio che partecipare agli eventi naturali. E bisognava dare una mano: ho imparato così la fatica e il va­lore del lavoro che è certamente eco­nomico, ma prima di tutto etico. Se un uomo non può svolgere il proprio lavo­ro con un margine di creatività, non riu­scirà a dare uno scopo alla propria esi­stenza.

Viviamo un momento di grande sfidu­cia. Cosa abbiamo sbagliato?

Abbiamo creduto di poter risolvere tut­ti i problemi con la ricchezza. Dobbia­mo ricominciare daccapo demolendo quella casa comune dove l’economia è stata impostata secondo modalità rive­latesi una truffa. Ancora oggi viene ri­badita la fiducia in questo sistema. Ma arriverà il momento in cui sentiremo le fucilate della Bastiglia e le teste cadran­no. Dove non arriva la giustizia arriva il castigo. E sarà molto peggio.

All’inizio degli anni Settanta insieme a Stajano cantavate una canzone di Ser­gio Endrigo, diventata il vostro inno, che diceva: «Siamo nati in un dolce paese dove chi sbaglia non paga le spe­se, dove chi grida più forte ha ragio­ne… ». Non è cambiato nulla da allora?

La puzza di bugia legalizzata si sentiva già a metà degli anni Sessanta. Oggi la truffa non è solo giustificata, ma persi­no invidiata. Quelli sono stati però gli anni dei miei grandi amici, da Parise, al quale ho insegnato a guidare, a Bian­ciardi, che negli ultimi mesi di vita si da­va il colpo di grazia con il Fernet e ve­niva a trovarmi tutti i giorni. Da Staja­no a Mastronardi, che mi raccontò il suo primo tentativo di suicidio e che poi si uccise davvero gettandosi nel Po. E, na­turalmente, Pasolini.

Si è sempre definito un ’aspirante cri­stiano’...

Il cristianesimo è l’unico vero esempio di riscatto dell’umanità, l’unica vera rivoluzione – Montanelli diceva che, in confronto, quella francese e quella russa non sono nulla –, perché distingue il bene dal male.

Cristo è una presenza im­portante nella sua vita. Il sacro permea tutto il suo cinema...

Cristo mi ha aiutato nei momenti più difficili. Par­lo del Cristo senza altre pa­rentele. E penso al miste­ro cosmico al quale tutti apparteniamo e nel quale l’uomo riconosce il sacro dell’esistenza. La Bibbia comincia con la separa­zione della luce dalle tenebre: la Crea­zione viene descritta in un modo che la scienza conferma. Pitagora affermava che l’uomo prima di venire al mondo conosce il mistero dell’universo, ma con la nascita dimentica tutto e spende la propria vita a ricordarne qualche fram­mento. Quando la scienza allunga lo sguardo per cercare questo mistero, non sta forse guardando al trascendente?

Delle istituzioni ha invece sempre a­vuto una pessima opinione.

Il rapporto con il potere mi mette a di­sagio, sebbene nella Chiesa, ad esem­pio, riconosca uomini di altissimo va­lore. Alcuni, come i martiri, ci hanno ri­messo la vita, altri la carriera. Non ho mai permesso a nessuno di farmi spie­gare la vita e dettare regole da sotto­scrivere, proprio in nome della libertà cristiana di scegliere il bene o il male.

Non le è mai piaciuto essere conside­rato un maestro. Perché?

Sono stato un allievo tutta la vita. L’ap­prendistato è la condizione ideale per lasciarsi continuamente stupire.

«Il posto» è un film che ha stupito tan­ti registi e attori in tutto il mondo.

È vero, è molto amato da Malick, De O­liveira, Kiarostami. Peter Falk mi disse di aver abbandonato il suo lavoro di im­piegato dopo aver visto il film, che Ve­nezia non volle in concorso.

Per «L’albero degli zoccoli» invece mol­ti citano Virgilio.

C’è un brano che mi piace ricordare, quello del contadino che da un picco­lo pezzo di terra non adatto all’agricol­tura ricava fiori e frutti. Nemmeno i re potevano godere di quelle primizie. Tut­ti coloro che parlano con onestà dell’o­nestà della terra hanno la medesima madre.

Onestà è una parola che usa spesso.

Umberto Saba si chiedeva come do­vesse essere la poesia e si rispondeva: o­nesta. Chi fa finta di essere felice o di essere posseduto da estasi poetica, co­me accade ad alcuni artisti interessati solo al denaro, è un bugiardo e un op­portunista.

Dopo «Centochiodi» aveva annuncia­to di volersi dedicare solo al docu­mentario. Cosa le ha fatto cambiare i­dea?

Una caduta mi ha costretto a letto per 70 giorni e ho dovuto abbandonare l’i­dea di viaggiare per il Mediterraneo al­la ricerca di ciò che rimane della cultu­ra e della religione di quei popoli dai quali proveniamo e che abbiamo tradi­to. Allora ho deciso di portare a me quel­le culture. Ma non rinuncio ai miei pro­getti: andrò in giro lentamente, come le chiocciole, con la casina sulle spalle.