Giorgio Dell’Arti, La Stampa 16/7/2011, 16 luglio 2011
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 127 - UN TENTATIVO DI FARLO FUORI
Tutto cominciò con una campagna di stampa particolarmente accanita. Il conte veniva indicato come affamatore del popolo e incettatore di farine. Si ricordavano i molti affari conclusi con i commerci di grano e il possesso dei mulini. Ancora adesso Cavour aveva un interesse nei mulini di Collegno, una partecipazione in quel momento assai sospetta. Il 18 ottobre (del 1853) un corteo di un centinaio di persone partì da Porta Palazzo, attraversò Doragrossa e piazza Castello, e giunse davanti a casa Cavour. Qui erano in attesa un’altra decina di uomini, picchiatori esperti. Sfondarono la porta, salirono le scale. Ma accorsero i servi e riuscirono a respingerli.
Non c’era. Era a una riunione al ministero delle Finanze. Arrivò di corsa e non si capacitava che i dimostranti avessero potuto spingersi fino a quel punto. Gli dissero: «Cosa vuole, Eccellenza, un equivoco, le solite rivalità tra polizia e carabinieri…».
Studiando le caratteristiche dell’assalto, pareva che ci avessero messo mano i preti. Castelli raccontò di aver incrociato un gruppetto di quelli che s’allontanavano dopo la manifestazione, gente bruttissima, con certe barbacce, e uno di loro si lamentava, bestemmiando diceva: «Non era così che bisognava fare, bisognava a forza salire le scale, entrare e finirlo una volta!». Soprattutto Buffa giurava sulla pista clericale: «Agnosco stylum romanae ecclesiae...».
I colpevoli li presero o no?
Alla fine dei colpevoli a Cavour interessava poco. Nell’operazione il conte vedeva soprattutto l’inimicizia degli apparati, in particolare della magistratura, perennemente all’opposizione e animata da uno spirito di indipendenza esagerato e pericoloso. Voleva portare in tribunale i giornali, ma alla fine lasciò perdere: i giudici sarebbero stati capaci di assolverli tutti. Ci sarebbe voluto un altro ministro della Giustizia, perché certo con Bon Compagni c’era poco da sperare. Lo stesso Bon Compagni, anzi, percependo l’imbarazzo che lo circondava, offrì le dimissioni. Cavour andò dal re. «Allora mi mandi subito Urbano», disse Vittorio Emanuele, alludendo a Rattazzi. E infatti: Rattazzi entrò al ministero e mostrò un’energia notevole, una vera anima giacobina, trasferendo chi andava trasferito e perseguitando chi andava perseguitato.
Facendo entrare Rattazzi al governo, si rafforzava il partito del connubio.
Certo, e l’opposizione si fece infatti più dura. Fu in quell’occasione che i liberoscambisti presero ad attaccare Cavour, opponendosi alla legge che affidava alla Banca Nazionale la tesoreria e che infatti fu alla fine respinta dal Senato. Cavour era abbastanza all’angolo: il re non voleva nominare nuovi senatori e il Senato così com’era condizionava troppo la vita del governo. Vittorio Emanuele concesse però le elezioni e lo scioglimento della Camera. Cavour sperava che, con un risultato elettorale importante, il sovrano si sarebbe sentito obbligato a mandare in Senato qualche liberale. Lo scioglimento della Camera era una forzatura costituzionale notevole - non del tutto a torto l’«Armonia» lo accusò di voler tentare un colpo di Stato - e Cavour condusse poi una campagna elettorale ai limiti della legalità, mobilitando sindaci e intendenti, mentre Rattazzi inviava circolari ai funzionari periferici in cui li informava che anche un atteggiamento di «indifferenza» verso i «raggiri» dell’opposizione sarebbe stato considerato segno di «mal animo» verso il governo.
No, anzi, clericali e democratici si coalizzarono appoggiando nei collegi sempre il candidato antigovernativo. Uscì fuori un Parlamento dove i rapporti di forza erano più o meno sempre quelli: 30 deputati al connubio, 52 alla sinistra, 22 alla destra. Il re si guardò bene dal nominare nuovi senatori. La sostituzione di Cavour dopo appena un anno di governo era una delle possibilità, e il re la coltivava. Ma era escluso affidarsi alla sinistra dei Valerio e dei Brofferio, che volevano tagliare le spese militari (o magari la diplomazia) ed era escluso puntare sulla destra di Revel, che era freddo sulla politica italiana del re. Il cavallo giusto poteva essere Rattazzi, e infatti Vittorio Emanuele ci punterà. Ma nel ‘53 era ancora troppo presto. Cavour era l’unico che garantiva una politica nazionale e anti-austriaca, e un sostegno all’apparato militare dello Stato, a cui il sovrano non avrebbe mai rinunciato. C’erano stati nuovi, gravi incidenti con Vienna.
A Milano?
Sì, a Carnevale avevano ammazzato dieci soldati austriaci. Si raccontavano episodi di ferocia inaudita, militari di Radetzky ubriachi che i milanesi avevano preso e crocefisso alle porte delle osterie. Episodi forse esagerati. Ma a Vienna si raccontavano...