Giorgio Dell’Arti, La Stampa 17/7/2011, 17 luglio 2011
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 128 - CONTRO GLI IMMIGRATI
In che modo questi fatti milanesi incrociavano la vita politica di Torino?
In quell’anno 1853 ci saranno stati in tutto il Regno di Sardegna un ventimila emigrati. Erano personaggi di ogni tipo, intellettuali e avventurieri, e parecchi s’erano inseriti bene nella vita piemontese, arrivando a ricoprire anche incarichi di grande importanza. Gabrio Casati, lombardo, che adesso era senatore, era stato per una ventina di giorni addirittura presidente del Consiglio. C’era anzi un certo rancore da parte dei torinesi nei confronti di questi stranieri, fuggiti alle persecuzioni dei sovrani degli altri Stati italiani. È chiaro che favorirli era politico, nel senso che diffondeva e confermava l’immagine del Piemonte come Statoguida della battaglia nazionale. Ma ai locali la concorrenza dava fastidio e all’università o negli uffici gli si faceva la guerra. La destra attribuiva all’emigrazione ogni turbolenza, ogni delitto. Gli emigrati chiamavano questo col nome di «spirito municipalistico». A livello politico lo «spirito municipalistico» aveva trovato la sua massima espressione nella guerra del ‘48-‘49, quando Carlo Alberto aveva combattuto - dicevano - più per allargare i domini della monarchia di Savoia che per unificare il Paese.
Tra questi immigrati ci saranno stati parecchi mazziniani. Di questi mazziniani, alcuni saranno stati dietro al moto milanese con gli austriaci crocifissi.
All’inizio i mazziniani erano parecchi. Poi c’era stato un lento spostamento su posizioni più moderate. Mazzini stava pagando le decine di sommosse andate a vuoto, ne fosse o no direttamente responsabile. In ogni caso: la mattina del 6 febbraio i piemontesi presero alla frontiera con la Lombardia certi figuri, una banda che voleva passare dall’altra parte. Li arrestarono e perquisirono, quelli ammisero qualcosa, vi furono altre irruzioni - per esempio a Stradella, in casa di Depretis -, infine vennero espulsi dal Paese 150 individui, tra cui Francesco Crispi, Adriano Lemmi, Benedetto Cairoli. Di tutto furono informati gli austriaci. Gli si disse: pare che stiano preparando qualcosa contro di voi.
Non mi pare un comportamento molto patriottico.
Sì, invece, e molto politico, come vedrà subito. Gli avvertimenti di Torino arrivarono in ogni caso tardi. Quel giorno stesso, ultimo di Carnevale, vi fu la rivolta a Milano con i dieci morti e gli austriaci crocifissi sulle porte delle osterie. Radetzky mandò i ribelli davanti ai tribunali speciali, li fece impiccare in pubblico senza processo, isolò la città, chiuse la frontiera col Canton Ticino e sequestrò i beni di quelli che erano scappati all’estero. Per esempio, a Torino.
Cioè, se io ero scappato a Torino lasciando una mia casa a Milano gli austriaci adesso me la sequestravano?
Proprio così. E molte volte erano patrimoni considerevoli, perché i patrioti spesso erano nobili e ricchi. Anzi: se si guarda, la maggior parte degli emigrati milanesi stava proprio a Torino e campava piuttosto bene con le rendite che provenivano dai possedimenti lombardi. Quindi, l’idea di sequestrare i patrimoni poteva essere interpretata come una misura anti-torinese.
Ma se il Piemonte li aveva avvertiti. Lo ha detto lei prima.
Giudice di quel conflitto era l’Europa. E che cosa vedeva l’Europa? Che i piemontesi avevano correttamente informato Vienna ed espulso un bel po’ di teste calde. Quindi avevano fatto il loro dovere in difesa dell’ordine. Gli austriaci invece... Cavour aveva ordinato al rappresentante sardo di andare a protestare dal ministro degli Esteri Buol. Quello s’era messo a parlare di legalità, e Buol gli aveva risposto: «Caro lei, è proprio la legalità che ci uccide». Aveva un’aria tronfia. Il ministro di Torino si richiamava ai trattati del ‘51, e l’austriaco: «Ma quei trattati sono veleno, non siamo per niente disposti a sorbir veleno…». Cavour fece in modo che quelle risposte venissero conosciute in tutte le cancellerie. Le cancellerie s’indignarono e solidarizzarono col Piemonte. Già d’istinto si sta sempre dalla parte del più debole.
Perché Cavour aveva bisogno della solidarietà internazionale?
Senza quella non c’era programma nazionale che tenesse. Però bisognava non esagerare, nessuno voleva complicazioni che portassero chi sa dove per casi che a Londra e a Parigi parevano comunque minimi. D’altra parte non si poteva nemmeno passivamente subire. Un buon numero di emigrati era addirittura naturalizzato cittadino sardo. Il conte spedì un memorandum a Francia e Inghilterra per provare l’innocenza del Regno, poi richiamò il suo ministro da Vienna, infine fece votare dal Parlamento uno stanziamento a favore degli emigrati colpiti. Piccole misure, che confermavano l’immagine di un paese capace di rispondere con dignità e fermezza a un sopruso che non aveva la forza di impedire. Non solo la simpatia internazionale venne confermata, ma all’emigrazione repubblicana, quella che ancora aveva puntato sul moto di Milano, venne offerta una bella materia su cui riflettere. Da una parte c’era la carneficina, con l’Austria trionfante. Dall’altra, il conte di Cavour che aveva quasi rotto le relazioni diplomatiche con Vienna e aveva tirato, almeno apparentemente, il resto dell’Europa dalla sua parte.