Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 16/7/2011, 16 luglio 2011
INVESTITURA PROVVIDENZIALE PER GAS E PETROLIO ITALIANI
La dichiarazione di Istanbul, un’investitura ufficiale per i ribelli, può salvare il gas e il petrolio dell’Italia. Esautorati a Bengasi dalla disinvoltura del presidente francese Sarkozy, penalizzati dall’incapacità del Governo di influenzare l’ex alleato Gheddafi, cancellati infine dal regime del Colonnello i contratti con l’Eni, gli interessi economici e politici italiani nella nostra ex colonia fino a poche ore fa stavano per sprofondare nello "scatolone di sabbia" che ci vide baldanzosamente sbarcare a Tripoli nel 1911. Un secolo di vicende sanguinose e controverse sfociate nel 2008 in un trattato di amicizia che ci legava a mani e piedi al Colonnello. L’Eni aveva firmato contratti fino al 2042 per l’estrazione di greggio e fino al 2047 nel gas. Prospettive epocali, sostenute con convinzione da quasi tutte le forze politiche che ci avevano fatto digerire una visita di Gheddafi a Roma, nell’agosto scorso, che appare adesso come l’eco di un lontano carnevale.
Attraverso il Greeenstream, il gasdotto sottomarino, affluivano sulle sponde siciliane nove miliardi di metri cubi di metano. La rivolta ha azzerato tutto e nonostante le rassicurazioni su possibili alternative sui mercati avevamo subito un penoso rovescio delle nostre fortune sulla sponda Sud. Forse nessun altro Paese europeo, dati alla mano, è stato colpito più concretamente nei suoi interessi immediati dalla primavera araba.
Il rischio che la Libia si trasformi in uno dei peggiori fallimenti della nostra politica estera c’è ancora ma forse possiamo rimediare. La guerra civile libica, come del resto le altre rivolte, ha colto l’Italia di sorpresa e senza un piano alternativo alla sopravvivenza di un regime al quale avevamo affidato una parte non trascurabile della nostra sicurezza energetica: un quarto delle importazioni di petrolio, il 15% del gas. Tutto questo è avvenuto in uno scenario internazionale complicato dall’instabilità della Tunisia e dell’Egitto, con interessi energetici rilevanti, dalle problematiche con l’Algeria e con la Russia.
L’unico dato confortante è che la nuova Libia, ancora più della vecchia, avrà bisogno di riprendere il più rapidamente possibile la produzione di petrolio e di gas. E con ogni probabilità non è nel suo interesse rimettere in discussione i contratti già esistenti. Certo i nostri concorrenti e alleati nella Nato, francesi, inglesi, americani, non si faranno sfuggire l’opportunità di sottrarci quote di mercato: inutile nasconderselo, la sconfitta di Gheddafi è anche la nostra, nonostante la partecipazione ai bombardamenti contro il regime, sollecitata dal presidente della repubblica soprattutto per contrastare il protagonismo di Parigi. Le considerazioni umanitarie, come la protezione della popolazione civile, erano davvero in seconda fila.
Ai vecchi concorrenti, altri in questi anni si sono aggiunti. La Cina prima della guerra era dopo Italia e Francia il terzo acquirente di petrolio libico e da un paio d’anni anche il maggiore partner commerciale. Pechino ha evacuato dalla Libia 36mila cinesi: possiamo stare sicuri che sono pronti a tornare anche con il Governo di Bengasi.
Uno degli argomenti più convincenti che ha in mano l’Italia con la nuova Libia è quello finanziario, ovvero le partecipazioni del fondo sovrano libico e della banca centrale di Tripoli in UniCredit, Eni e altre attività. Si tratta di beni congelati che però avrebbero già costituito una garanzia per la negoziazione di prestiti italiani al Consiglio di Bengasi: insomma stiamo tentando di acquisire dei crediti, come già hanno fatto altri - francesi e turchi, per esempio - con i capi dei ribelli.
In Libia siamo sulla difensiva ma l’Italia può trasformare questa situazione da passiva in attiva. In Nordafrica e Medio Oriente la politica italiana, pur esitante, viene apprezzata perché comunque antepone all’intervento militare quello diplomatico. In Libia finora l’agenda ci è stata dettata da altri, possiamo però prenderci una rivincita, utilizzando la nostra capacita di intrattenere con la sponda Sud relazioni politiche, economiche, culturali, spendendo magari qualche cosa in più nel campo sociale e della cooperazione. Questo è il nostro soft power: può non bastare ma è già qualche cosa.