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 2011  luglio 17 Domenica calendario

VIVERE NELLA CITTÀ INFINITA

«Nel corso dei secoli, regni, stati-nazione e imprese sono nati e morti a migliaia. Eccetto rare eccezioni, le città sopravvivono. Occasionalmente cambiano nome». Il pensiero della sociologa Saskia Sassen sui temi della globalizzazione, va oltre l’enunciato e si combina con il numero 44 – preso a caso in una serie infinita associata ad altrettante metropoli – che equivale a quanti nuovi cittadini arrivano a Mumbai ogni ora, di ogni giorno, di ogni anno. Anche per questa magnetica capacità di attrazione, esercitata da sempre, ma mai con il passo di oggi, il tessuto urbano si radica nel tempo, a differenza dei frammenti in cui si dissolvono gli stati. La città, se distrutta, sarà ricostruita sui resti di se stessa.

Il destino alla sopravvivenza, alla (quasi) eterna ripetizione di se, è la prospettiva per inoltrarsi nella lettura della realtà in cui siamo immersi e di cui noi cittadini, forse, non abbiamo piena coscienza. Living in the endless city, prima di essere un libro appena uscito in Gran Bretagna, è il secondo atto di una ricerca intitolata Urban Age, firmata dalla London School of Economics di Londra e dalla Deutsche Bank Alfred Herrhausen Society. La prima metà – Endless City – pubblicata anni fa, misurava il polso a sei città (Berlino, Johannesburg, Londra, Città del Messico, New York, Shangaii), la seconda completa l’opera con Istanbul, Mumbai, San Paolo.

La città infinita è un racconto metropolitano che traccia, sia nei pensieri dei ricercatori sia nella statistica, una realtà che ci appare mutevole e sfuggente perché di tanto dinamismo in cui siamo immersi si ha la sensazione, ma di rado la certezza. Il gap lo colmano i numeri. Il 50% della popolazione del mondo abita in città che coprono il 2% del territorio planetario, un terzo di essa in slums. Entro il 2050 i due terzi degli abitanti della terra vivranno in enormi agglomerati urbani, metà di essi in favelas più o meno modernizzate. Le aree urbane concentrano l’80% della produzione economica mondiale e il 75% delle emissioni di CO2.

L’evoluzione dell’arrembaggio alla realtà urbana è in un altro dato: Londra, per passare da un milione di abitanti a essere la prima megalopoli con dieci milioni di cittadini (oggi ne ha sette e mezzo) ha impiegato un secolo. Mumbai – abbiamo visto – cresce di 380mila persone all’anno e in qualche decennio sarà la più grande città del mondo surclassando, con 35 milioni, Tokio e Città del Messico. «L’ordine di grandezza fra le dinamiche di ieri e di oggi – sottolinea Ricky Burdett direttore del programma Cities di London school of Economics che firma il lavoro insieme con Deyan Sudjic, direttore del Design museum di Londra e insieme con decine di altri collaboratori – è radicalmente differente».

Le conseguenze anche. «Le città – continua il docente – sono sempre più frammentate negli spazi, socialmente divise con un impatto ambientale devastante... Ciò che è costruito oggi (il riferimento è nello specifico alle tre città esaminate, ndr) e che resterà con noi per secoli, rischia di avere effetti molto peggiori sulle comunità cittadine di quanto prodotto nel secolo passato». Per Burdett l’esempio più evidente è la costruzione, in due decenni, di abitazioni per 3 milioni di persone attorno a Istanbul. Ancor più sorprendenti sono i progetti urbani di Città del Messico che realizza viadotti urbani simili a quelli costruiti a Boston nel 1960 e ora prossimi a essere abbattuti con un costo di 5 miliardi di dollari.

L’urbanizzazione ha aiutato a ridurre la povertà assoluta avvicinando le persone e le cose, agevolando lo scambio di idee, sospingendo il Pil mondiale a essere al 97% prodotto da manifattura e servizi realizzati in città, ma non ha impedito l’aumento degli indigenti nelle metropoli. Dal 1993 al 2002 almeno 50 milioni di nuovi poveri popolano le città del pianeta, anche se nelle campagne s’è contratto del triplo il numero di derelitti.

Lo studio indugia, nel saggio di Deyan Sudjic, al ruolo dell’architetto ricordando i dibattiti di Leon Krier (considerato esponente del New Urbanism, tanto influente sul principe Carlo) e Rem Koolhaas che, da impostazioni diverse, constatano – secondo l’autore – l’impotenza del professionista, architetto e urbanista, nel riuscire a far funzionare meglio la metropoli.

La dimensione fisica e sociale delle città esplorata nello studio trova nelle parole di Saskia Sassen la tesi che spiega il successo economico delle metropoli. «Le città sono sistemi complessi – scrive la sociologa – che agevolano lo sviluppo di attività creative... da qui il legame fra le vecchie economie manifatturiere e l’attuale economia della conoscenza». Chicago e la Boeing, sono la metafora prescelta dalla sociologa. «Quando la Boeing ha deciso di misurarsi con l’economia globale della conoscenza, piazzando il suo know how sul mercato, non ha scelto New York, ma Chicago, hub della knowledge economy nata sul suo passato industriale».

Anche per questo le città sono diventate, come scrive Wolfagang Nowak direttore di Deutsche Bank-Alfred Herrahausen Society, «programmi politici resi visibili, dove primo, secondo e terzo mondo coesistono costretti a misurarsi con clash religiosi e culturali, con il terrorismo, con le crisi economiche, con le pandemie». E non potendo più, come secoli fa, chiudersi dietro le mura «cercano protezione – continua Nowak – creando ghetti al loro proprio interno».

Città si sono fatte metropoli sulla via di diventare regioni urbane, capaci di definire il successo o il fallimento di uno stato intero. Città infinite, quindi. Endless soprattutto perché, suggerisce la ricerca, il trend in corso è rapido, è deciso e nessuno immagina che si possa mai più fermare.