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 2011  luglio 18 Lunedì calendario

I DIECI PASSI FALSI SULLA VIA DI PECHINO

Le cappe italiane? In Cina non fanno grandi affari. Le loro dimensioni sono troppo piccole per il modo di cucinare delle famiglie cinesi, che è differente dal nostro: dai loro fornelli spunta molto più fumo da assorbire. Errori come questi si pagano. Lo sa bene Piazza Italia di Pechino, la palazzina della gastronomia italiana che chiuse i battenti a fine 2009, dopo poco più di un anno di esistenza e molti milioni di euro gettati al vento. Si voleva vendere ad alto prezzo prodotti comuni importati che si trovavano già al supermercato o in negozi più piccoli. Senza contare che l’edificio si trovava in un centro direzionale che la sera si spopola, e quindi non generava volumi.

Il made in Italy in Cina è ancora debole. Nel tessile e nell’abbigliamento siamo solo i noni esportatori, e nell’agroalimentare il nostro export verso la Cina è quasi equivalente a quanto vendiamo in Romania o in Serbia. Ma qual’è la ricetta per allunare sicuri? Lo abbiamo chiesto agli esperti di Jesa, società di consulenza presente a Shanghai dal 1998, con cui il gruppo assicurativo Sace ha appena sottoscritto un accordo di partnership per sostenere la penetrazione delle aziende italiane nel mercato cinese.

Innanzi tutto, dicono da Shanghai, bisogna togliersi dalla testa che in Cina tutto costi poco. Il costo delle risorse umane è in drastico aumento, l’inflazione cresce e il costo delle materie prime ha un impatto notevole sia sui prodotti semilavorati che finiti: la scelta di produrre in Cina non può più essere dettata dalla ricerca di un risparmio sui costi.

È un errore anche affidarsi a un unico partner locale. «Non esiste un unico partner cinese che possa realmente coprire tutta la Cina, che è 32 volte più grande dell’Italia – spiega Saro Capozzoli, Ad di Jesa –. La soluzione migliore? Mantenere il controllo delle operazioni produttive e commerciali in maniera diretta e con strutture proprie, quindi senza partner, e poi siglare accordi commerciali, senza partecipazioni societarie, con più società in più zone della Cina». Capozzoli non resiste all’aneddoto: durante una fiera, un’azienda italiana conosce un cinese che si offre di farla entrare sul mercato cinese, e chiede l’esclusiva. Dopo tre anni le vendite languono, e il management italiano è perplesso. Intanto, l’agente cinese apre sei show room in sei città, con il nome dell’azienda italiana ben in mostra: importa sì il minimo dei prodotti stabiliti, ma fa produrre il resto da amici cinesi dello stesso settore. E mentre l’impresa italiana fattura solo un milione di dollari all’anno, il mercato si sviluppa per oltre 20 milioni in soli 3 anni, e gli italiani non ne sanno nulla.

Importante, poi, è fare valutazioni corrette sul proprio fabbisogno finanziario. Capita spesso che il piano fatto in Italia non corrisponda alla realtà dei costi in Cina, e in particolare alla variegata situazione fiscale presente anche solo tra un distretto e un altro di una stessa città. Certo, si può sempre ricapitalizzare in loco, dato che le banche cinesi offrono prodotti finanziari sempre più sofisticati e sono sempre più aggressive nel ricercare la clientela. Ma si deve considerare che senza una presenza stabile in Cina con attività avviate da almeno tre anni nel paese, sarà difficile approcciarle in un primo momento. Rischiando così di rimanere a secco. «Sempre sul fronte creditizio – aggiunge Marina Vettese, responsabile dell’ufficio di SACE a Hong Kong – non bisogna dimenticare che con le misure di contenimento della liquidità recentemente varate in Cina, crescerà la domanda di dilazioni di pagamento per l’acquisto di beni e servizi italiani da parte di controparti cinesi».

Mai sottovalutare, infine, la possibilità di cambiamenti normativi. Le leggi a livello nazionale e locale sono in continuo mutamento, oscillando di volta in volta tra la protezione degli interessi delle imprese da un lato, e quelli di lavoratori e ambiente dall’altro. Senza contare che l’applicazione delle leggi nazionali è lasciata all’interpretazione delle autorità locali, se non addirittura del singolo impiegato d’ufficio.