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 2011  luglio 18 Lunedì calendario

PIERA DEGLI ESPOSTI "VOGLIO UN TRAMONTO SGARGIANTE COSÌ SONO DIVENTATA BUDDISTA"

Come è emotivamente dolente e fine Piera Degli Esposti. Attrice della vita. Attrice per se stessa, per gli altri: con generosità e sospetto. Come è remota la sua forza e fragile quel composto di sensazioni che ci mette a disposizione: dai ricordi familiari alle accese dispute per chi e con chi recitare. Ama sedurre Piera, ama raccontare, senza barriere, né infingimenti: per essere se stessa sempre, anche quando è sul palcoscenico, anche quando è dentro qualcun altro. La vado a trovare. Ho ascoltato la sua voce nell´audiolibro Marianna Ucrìa. Una sonorità intima come una frazione di infinito. Non è questo il segreto che comprendiamo solo alla fine di un incontro, di una recita, di una parola?
«La parola teatrale rischia di morire, più di quella letteraria, più di quella poetica. Bisogna ricominciare a difenderla, a evocarla, anche attraverso il ricordo», dice con una voce che incalza i suoni, si alza e si abbassa a seconda della forza con cui vuole sottolineare una frase.
Di quale generazione teatrale ha fatto parte Piera Degli Esposti?
«Una generazione che è stata decimata. C´erano Perla Peragallo, Leo de Berardinis, Giancarlo Nanni, Carmelo Bene. Tutti scomparsi. Perla era la più brava. E fui molto invidiosa, perché la più brava volevo essere io. Non si parla mai dell´invidia. È un sentimento detestabile che tutti negano di avere. L´ho chiesto anche al mio analista: sono l´unica invidiosa? Mi ha risposto: gli altri non lo dicono. Perla sembrava una vietnamita. Io mi vedevo troppo alta, troppo chiara e sfuggente. Lei, invece, aveva la compattezza degli orientali. Consolavo la mia invidia dicendomi che avevo un modo tutto mio, speciale, di stare sulla scena».
Il vostro era un teatro di sperimentazione, cosa lo distingueva da quello tradizionale?
«Quasi tutti facevano un teatro in cui dietro il personaggio c´è l´attore. Noi no. Non ci spogliavamo in camerino e portavamo noi stessi in scena».
La differenza non era anche nel linguaggio, così provocatorio e di ricerca il vostro?
«Il linguaggio è l´aspetto più superficiale e ovvio. La cosa importante era che ciascuno di noi si esponeva in modo impudico. Trasmettevamo questa forza di essere Perla, Piera, Manuela, intendo la Kustermann, o Carmelo».
A proposito di Carmelo, com´era lavorare con Bene?
«Quando mi offrì la parte di Ermengarda nell´Adelchi fui sconsigliata dall´accettare. Ricordo che la prima cosa che mi disse fu: "Adesso che lavorerai con me non vorrai più lavorare con nessun altro". Una presunzione immensa accompagnata da due occhi tondi e minacciosi. Non riesco a reggere la paura, quando lavoro ho bisogno di un ambiente familiare. Per questo dopo avergli detto sì in un primo momento, ci ripensai. Ma lui riuscì a convincermi. Lo fece semplicemente perché avendogli detto no, voleva distruggermi».
In che senso?
«Improvvisamente era diventato sarcastico, provocatorio, irritante. E poi un bel giorno mi fece dire che lo spettacolo non si faceva più. Non era vero naturalmente. A quel punto però me ne sono andata».
Come spiega il suo cambio di umore?
«Era capriccioso e tirannico. Godeva nel fare a pezzi quel piccolo idoletto del femminismo che allora ero io. Pensai a un certo punto che il suo atteggiamento dipendesse da un mio problema polmonare. Diceva che sentiva al microfono un affanno nella voce. Ma non era vero. Era solo un uomo crudele».
Le è dispiaciuto non aver lavorato con lui?
«No. Mi sono sentita liberata. È brutto dirlo: cedetti alla stima del suo lavoro che è più forte di tutto, anche della sua follia. Ma io non posso convivere con la paura. La prima cosa che chiedo ai registi, anche piccoli: "Sarai buono sul set?", non posso lavorare con una persona che temo. Mi accadde anche con Strehler che mi propose la parte nel "Temporale" di Strindberg con Tino Carraro e Franco Graziosi. Mi chiamava Mollina, perché avevo interpretato "Molly cara". Era abile, seducente, ma quando alla fine dissi no alla parte se la prese al punto che le volte che capitava di incontrarsi, mi additava come la stronza. Per lui era inconcepibile che avessi rifiutato la sua offerta».
Perché si è tirata indietro?
«Perché avevo paura che non potessi accudire il mio talento, del quale non ho mai dubitato. Avevo paura di una persona che poteva dirti con la stessa disinvoltura il vero e il falso. A quel punto sentivo che il talento se ne sarebbe potuto andare via. Se ce l´hai, se lo senti, va difeso con tutte le forze. Come ho difeso la mia famiglia».
Perché questo bisogno di riaffermarla, di metterla sempre in primo piano?
«Perché non ricordo con la stessa forza quello che mi è accaduto fuori dalla famiglia. Eppure, ho avuto diversi compagni, storie belle e tumultuose, ho fatto spettacoli e visto paesi. Ma non ricordo nulla con la stessa intensità e nitore, come quella prima parte della mia vita con loro: con mio padre, mia madre, i miei fratelli e sorelle. Loro sono stati l´aratro che hanno permesso a me di mettere radici».
Che tipo di famiglia eravate?
«Ci amavamo, semplicemente. E questo non so se accade in tutte le famiglie. C´erano il babbo e la mamma, Franco e Carlo e Carla che non c´è più. Sono stati il mio pubblico che mi ha amato, sopportato, incitato».
Lei ha raccontato tutto questo, insieme a Dacia Maraini, in Storia di Piera. Una vicenda con al centro la figura di sua madre.
«Una donna straordinaria e difficile che mi vedeva come un´amica. Stava dei mesi a letto, nella più cupa depressione, e non voleva parlare con nessuno. Per il resto dell´anno era sempre via, con dei compagni nuovi. Per lei la vita era una giostra, una festa e insieme un inferno. Marco Ferreri ha subito intuito la forza di questa donna. E quando andò a conoscerla, per preparare il film tratto dalla Storia di Piera, si guardarono a lungo, in silenzio. Sembrava che si studiassero, come due capi indiani, due Geronimo che si esprimevano per l´essenziale».
Con Ferreri lei ha avuto un legame profondo.
«Non so se è carino dirlo. Era una persona di grande intelligenza, fracassona, sboccata e tenera. L´ho molto amato, Ferreri».
A proposito di amori, lei si innamorò perdutamente di Robert Mitchum. Come andò la storia?
«Avevo 14 anni quando lo vidi per la prima volta in un film. Ricordo che costrinsi i miei fratelli a camminare con i piedi all´indentro come lui. Mi piaceva la sua promettente fisionomia, l´abbondanza del suo ventre, i lineamenti forti. Gli scrissi una lunga lettera che poi divenne un corto di Francesco Vaccaro. L´amore immaginato, mitizzato, ha una forza possente. La gente adora sentire parlare d´amore. Il successo delle canzonette, dei filmetti, dei romanzetti è tutto in questa parola che si spalanca sulla fantasia».
Come si innamora Piera Degli Esposti?
«Ogni volta che mi innamoravo si ingrandiva l´immagine della persona, ma più il tempo passava e più l´immagine si rimpiccioliva. Intanto, quasi sempre all´orizzonte appariva l´altro».
Perché parla al passato?
«Mi accade sempre meno di innamorarmi. Gli ultimi amori importanti sono stati con due persone più giovani di me. C´erano dei momenti in cui mi vergognavo. Alberto, che poi è morto in un incidente, aveva quasi trent´anni di meno. Con lui siamo stati per molto tempo assieme, confesso più per merito suo che mio».
Si vergognava di un amante troppo giovane?
«Avevo il problema del giudizio degli altri. Del fatto che ti fermano e ti dicono: bello suo nipote. Oppure ti guardano con un senso di compatimento. La gente vive di convenzioni e ha paura dello scandalo».
Quando Alberto è scomparso cosa ha provato?
«La storia non era finita e andava avanti , almeno per me, con molta stanchezza. Cosa mi è rimasto? È molto difficile dare una risposta. La morte richiederebbe una preparazione alla vita che è raro avere».
Ma la scomparsa delle persone che ci sono state care segnano un diverso rapporto con il nostro tempo passato.
«Per me Alberto segna la fine di un tempo giovane, di un tempo gaglioffo. La sua morte ha rappresentato soprattutto questo per me».
Significa che è entrata in una fase diversa della sua vita?
«Penso che all´inizio ero abituata ad avere più amanti che amici. E oggi, anche se non ho rinunciato di pormi in modo attraente, sono cresciuti come funghi altri interessi. Non so se è stata una difesa al lutto. Alberto aveva messo in evidenza la mia fatica alla dimensione fisica e la mia attrazione per le costruzioni fantastiche. Ma tutto questo va lentamente sparendo. Mi resta solo una leggera nostalgia».
Lei accennava all´analisi. È importante per lei?
«L´analisi ha sostituito il dialogo. Capisco chi dice: ma come paghi per dialogare? Per me è una necessità. Ho avuto un´analista straordinaria e poi un dottore psicoanalista che ho ribattezzato il "signor pomeriggio", col quale affrontavo le mie paure. Adesso è subentrata una nuova cosa che mi ha aiutata ad avere meno paura: il buddismo».
È diventata buddista?
«Sì, perché volevo un tramonto rosso. Non lo volevo maturo, vecchio, discendente. Bensì un tramonto sgargiante. E ho cominciato a leggere testi e a conoscere persone che desiderano la pace e la felicità del genere umano. Uno può dire che tutti fanno questo discorso e che sono generici e consolatori. Ma se lo fai seguendo una disciplina che ti porta tutti i giorni a volere questo per te e per gli altri, allora il senso è diverso».
Si ritiene una donna di fede?
«Non potrei vivere senza la fede e quel senso anche mistico che a volte provoca. Da bambina mi immergevo nell´acqua bollente della vasca da bagno e mio padre diceva che dovevo aspettare l´estasi».
E arrivava?
«L´estasi è un´attesa, un´iniziazione a un tempo altro da noi. La vasca da bagno era solo un esempio e forse anche un po´ ironico. Oggi ho messo da parte l´ironia per far spazio alla conoscenza e all´azione».
Cosa c´è dopo il tramonto rosso?
«Temendo io la morte, che già prende tanto spazio nei miei pensieri, vorrei sentirmi un po´ immortale, in quel tramonto. Questa è la cosa patetica su cui a volte mi piace fantasticare. D´altra parte, lascio alla fantasia il suo diritto di vivere anche sopra la vita».