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 2011  luglio 17 Domenica calendario

Alcuni lettori mi contestano di aver trascurato, nell’analisi che nei giorni scorsi avevo dedicato alle privatizzazioni, due grandi soggetti pubblici o ritenuti tali: le fondazioni bancarie, 50 miliardi di partecipazioni, e le Ferrovie dello Stato, patrimonio netto 36 miliardi

Alcuni lettori mi contestano di aver trascurato, nell’analisi che nei giorni scorsi avevo dedicato alle privatizzazioni, due grandi soggetti pubblici o ritenuti tali: le fondazioni bancarie, 50 miliardi di partecipazioni, e le Ferrovie dello Stato, patrimonio netto 36 miliardi. In realtà, è stata un’esclusione voluta: un conto è la realtà e un altro la fantasia ideologizzante che fa vedere la manna dove non c’è. Per capirci: come si possono privatizzare le fondazioni bancarie se sono da sempre enti di diritto privato? Potrebbero, semmai, essere nazionalizzate, ma le loro azioni bancarie non sono come le terre dei conventi, bramate dalla nascente borghesia agraria del secolo XIX e perciò oggetto della legge Siccardi di Massimo D’Azeglio. Lo Stato dovrebbe venderle per tagliare un po’ il debito, ma a chi? Se il mercato fosse disponibile a comprare, meglio sarebbe aumentare il capitale delle banche per avere più credito a imprese e famiglie che offrire un mare di titoli già emessi deprimendo le quotazioni. Ferrovie. Sono un gruppo che fattura 7,3 miliardi, dei quali solo la metà viene dal traffico passeggeri e merci non sussidiato. Guadagnano 118 milioni, con un ritorno dello 0,3%sul capitale. Questi numeri possono alzare un monumento al capo azienda Mario Moretti, considerando la storia delle Fs e la scarsità dei contributi pubblici italiani rispetto alla media europea. Ma non sono abbastanza per collocare le azioni Fs a prezzi degni presso il pubblico. Se non è possibile con il gruppo, ci si può provare con le due principali società, Rfi e Trenitalia? Mah. La prima deve completare gli investimenti nella rete ad alta velocità, e non solo. Se i pedaggi per l’uso della rete fossero calcolati in relazione al capitale investito e depurato dai sussidi pubblici, nessuno sarebbe in grado di pagarli. E in ogni caso, se, come oggi, il ritorno economico resta allo 0,38%(135 milioni di margine contro 35,4 miliardi di capitale investito medio), meglio lasciare Rfi dov’è. Il Regno Unito ci ha provato e ancora si lecca le ferite. Trenitalia, invece, dà un ritorno del 4,32%, sempre meno del costo del capitale ma assai migliore di Rfi. Ha un settore a prezzo libero, l’Alta velocità, che guadagna anche se non si sa quanto perché non pubblica conti separati. Il Frecciarossa, tuttavia, compensa le perdite di altri collegamenti a lunga percorrenza non sussidiati che il governo pretende in nome della pubblica utilità. Moretti ha ottenuto che l’Alta velocità — la sua e quella futura della Ntv di Montezemolo— concorra a ripianare questo costo. Il resto di Trenitalia dipende dai contratti di servizio con le Regioni, che li mettono a gara senza, peraltro, trovare folle di aspiranti ferrovieri. Facciamola corta: tanto meglio si può quotare Trenitalia quanto più si alza il prezzo del biglietto o l’integrazione a carico dello Stato. In entrambi i casi, una partita di giro. E in ogni caso, se pure approdasse in Borsa, Trenitalia, passeggeri e merci, dovrebbe usarne i denari per gli investimenti che trainano una filiera industriale e fanno crescita come in Germania, invece di riversarli a mera riduzione del debito.