Bruno Ventavoli, La Stampa 17/7/2011, 17 luglio 2011
MINNIE: LE MILLE E UNA VITA VISSUTE A RITMO DI SWING
Entrò nello schermo bianconero del sabato sera con aria svagata, un casco di riccioli biondi, gambe senza fine, per ronzare intorno a Fred Bongusto che cantava «Quando mi dici così...». Lo pizzicava, lo sfiorava, lo carezzava, miagolando sexy, allusiva, impudica. Insomma, indimenticabile. Era il 1971, l’Italia si preparava a una stagione di piombo e violenta follia ma in Parlamento, che sempre spicca per sensibilità verso il paese reale, arrivò un’interrogazione sulla soubrette troppo scandalosa. Minnie Minoprio dopo quei minuti di celebrità casuale («Un’idea di Falqui nata prima di andare in scena per rendere meno legnoso Bongusto») fu tra i personaggi più celebri dell’anno. Copertine, concerti, la Bussola, Montecarlo, regina in tutti i santuari del divertimento leggero.
Quarant’anni dopo, Minnie è una elegante donna bionda, di 69 anni. Capelli lievemente ondulati, nessuna traccia di quella aureola di ricci che stuzzicarono la teleItalia maschile («Dopo aver combattuto per anni con forcine e bigodini, e parrucche li ho lasciati in pace»). È madre, nonna, moglie (due volte), e sprigiona una voce bellissima sui palcoscenici d’estate insieme ai rutilanti Billy Bros Jumpin’ Orchestra. Dopo circa 8mila canzoni interpretate, decine di singoli e album, ora canta lo «swing». «Finalmente ho trovato la mia musica - dice -, vitale, gioiosa, a metà a tra il jazz e il pop, un’evasione dal grigiore quotidiano, quella che più mi rappresenta, perché sono una cantante d’attacco».
In mezzo, c’è stata la vita, le tante vite, di una ragazza nata alla periferia di Londra, che sapeva cantare, ballare, bucare la scena con la bellezza di un corpo elegante. Rispetto alle piccole star della tv odierna, sta come Heidegger a Scilipoti, ma dopo il furore degli esordi ha conosciuto più oblii che trionfi. A quindici anni, Walter Chiari («Un uomo meraviglioso») la notò in scena a Londra e la portò in Italia a fare rivista, lei non deluse in «Io e la margherita». Poi un curriculum di teatro con Garinei e Giovannini, Mastroianni, Buzzanca, Lionello, Beruschi, sodalizi con i grandi jazzisti romani anni 60, dischi, serate. Azzannò un pezzo di dolce vita, («Le feste, le passeggiate nella notte, i paparazzi, i corteggiatori»), e assaggiò il frutto velenoso della celebrità.
In tv passò come un tornado sexy e svampito («Piacevo così, e mi stava bene, anche se mi sembrava di vivere un’eterna bugia»), e pensarono di farne l’antiCarrà: invece le ritagliarono solo piccole nicchie, accanto alle più rassicuranti Bice Valori o Sandra Mondaini. «Mi promisero mari e monti. Ma in Rai non mi capivano, incutevo paura, i registi erano in soggezione perché non riuscivano a dominarmi». Dopo un paio di programmi le offrirono di essere la portalettere di Silvan. «Rifiutai. E lì mi chiusero in faccia le porte della tv per sempre. Fu una brutta botta. Avrei anche potuto darmi all’alcol, ma sono molto “perfida albione”, sono cresciuta in collegio, e così mi sono mantenuta astemia. Non mi arrendo, dicono che passo sulla vita come un caterpillar».
Anche il cinema fu avaro. «Roma bene» con Lizzani, qualche musicarello, «Una storia ambigua» assai erotica con Mario Bianchi, che poi passò all’hard più schietto. Una celebre apparizione su «Le Ore»: in copertina, vestita da infermiera; dentro, svestita in pose ardite. «Il nudo era una via quasi obbligata, l’abbiamo fatto tutte, persino Iva Zanicchi è finita su Playboy. Ma naturalmente non mi interessava», taglia corto senza sfumature di posteri pentimenti, come fosse un dettaglio irrilevante di un’esistenza da spettacolo, iniziata a pochi anni, in casa, travestendosi per i parenti da gallina o da rana.
Minnie proseguì nella rivista, e in un duro lavoro con il secondo marito a vagare per l’Italia minore in pullman con spettacoli in piazza, e una compagnia di una cinquantina di elementi, ballerine, tecnici, scenografie. («Facevamo anche 34 piazze in un mese, era una meravigliosa scuola di vita e di carattere, il contatto con il pubblico vero, gli imprevisti, i microfoni che saltavano, la pioggia che rischiava di fulminarti»). Negli anni ‘90, ha aperto un ristorante a Roma, che offre jazz dal vivo, il Cotton Club. «Tutti i grandi artisti che passano da Roma vengono da me, accettano gettoni quasi simbolici, per stima, e si accontentano delle abbondanti colazioni all’inglese che preparo». Perché Minnie, la donna che visse non due, ma tante volte, gestisce anche un Bed and Breakfast alle porte di Roma, in una villa a Capena. E un negozio di antiquariato dove smaltisce pezzi e stranezze accumulate negli anni, o vestiti vintage che ha indossato. «Ho la passione del rigattiere, ho frequentato mercatini per anni, e raccolto cimeli straordinari, dalle poltrone di Rascel, alle specchiere di Don Lurio. Colleziono ceramiche, le studio, le distinguo al tatto, vengo consultata per expertise».
«Sono una solista e ho vissuto una vita testarda, ma anche generosa», dice Minnie, che ha ancora voglia di inventarsi, e di esibirsi per cogliere applausi. «Ho capito che su questa terra siamo soli e sono andata avanti sperando di non disturbare, di non ferire. Ma come tutti gli inglesi non accetto le ingiustizie, sebbene ne abbia viste parecchie nello spettacolo. Conosco il valore dell’ironia, del silenzio. E sono taciturna, così la voce si conserva meglio per cantare». Rimpianti? «Uno solo, essermi rotta la gamba mentre sciavo. Ci ho ballato tanto sopra, e alla fine s’è calcificata male.Ora, con gli anni mi duole». Talvolta Minnie un po’ zoppica, un altro pizzicotto beffardo del destino, per una che disegnò balli flessuosi nei sogni italiani. Ma lei fa finta di niente, e nessuno se ne accorge, forse nemmeno il destino che s’è divertito spesso a stuzzicarla, ben più molesto di quel duetto con Fred Bongusto.