Varie, 18 luglio 2011
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 18 LUGLIO 2011
Cominciata con l’affermazione «Yes, we can», l’avventura presidenziale di Barack Obama potrebbe essere rilanciata o incamminarsi verso la fine con la domanda «If not now, when?» (da «Sì, possiamo» a «Se non ora, quando?»). [1] Angelo Aquaro: «Washington ha esaurito la sua carta di credito e ora deve pagare il conto: come fanno tutti». [2] Da settimane democratici e repubblicani discutono su una norma speciale che regola le finanze pubbliche americane. Federico Rampini: «Il Congresso ha il diritto-dovere di fissare un limite al debito. Raggiunto quel limite legale, il Tesoro non può procedere a nuove emissioni di titoli per rifinanziarsi, finché il Congresso non rinnova l’autorizzazione. Il limite fatidico ormai è raggiunto, 14.300 miliardi di dollari. La data fissata per la “fine del mondo” è il 2 agosto. Se prima di allora il Congresso non avrà votato un innalzamento del debito, il Tesoro non potrà rifinanziarsi». [3]
«Nel mese di agosto dobbiamo onorare gli interessi sul nostro debito. Ci servono 800 miliardi di dollari» ha avvertito Tim Geithner, ministro del Tesoro Usa. [4] Il tetto del debito è già stato alzato in passato sette volte, «senza controversie e con voti bipartisan durante gli otto anni di George W. Bush mentre il debito pubblico cresceva per le guerre non pagate e i grandi tagli alle tasse. L’idea di far fallire il governo per costringere Bush a cambiare politica non è venuta in mente a nessuno». [5] Fosse solo questione di cifre, l’accordo tra democratici e repubblicani non sarebbe difficile. Rampini: «Stiamo parlando di tagli fra 2.000 e 4.000 miliardi ripartiti fra nuove tasse e riduzioni di spesa, ma spalmati su molti anni a venire. Una manovra di lacrime e sangue, certo, però le spalle robuste dell’economia americana potrebbero reggerla. L’ostacolo vero è l’ideologia». [3]
La destra non accetta l’idea un solo centesimo di tasse in più. Non bastasse, con le elezioni presidenziali in programma nel novembre 2012 è forte nei repubblicani la tentazione del “tanto peggio tanto meglio”, il disastro economico per sfrattare l’inquilino della Casa Bianca. [3] Lo stato dell’economia nell’anno precedente un’elezione è il miglior indice delle possibilità di rielezione di un presidente. Quando Obama conquistò la Casa Bianca la disoccupazione era al 7.3%. Stille: «Nessun presidente, dopo Franklin Roosevelt, è stato rieletto con il tasso di disoccupazione sopra l’8 per cento, e quello attuale è di circa il 9,2 per cento. I repubblicani sanno benissimo che nel breve termine il taglio alle spese governative non può che ridurre l’occupazione». [6] Obama: «Potrò anche giocarmi la presidenza, ma sul debito non cedo». [7]
Il declino americano ha molte cause: due guerre costate 3.000 miliardi, la demografia che porta in pensione le generazioni popolose del baby-boom, il dissanguamento delle entrate fiscali per le politiche neoconservatrici. [3] Mario Margiocco: «Il debito federale è un problema dagli anni di Ronald Reagan. Dopo una parentesi positiva con Clinton, è praticamente fuori controllo, con un aumento medio di 500 miliardi di dollari l’anno, da quando Bush figlio si insediò alla Casa Bianca. Già nel 2002 l’allora ministro del Tesoro, Paul O’Neill, disse a Bush che quando i suoi tagli fiscali sarebbero terminati nel 2010 il Paese avrebbe avuto bisogno di un aumento del 66% del prelievo sul reddito, e di altre misure, per avviare il risanamento. Un ampio rapporto sui rischi dei conti pubblici doveva essere allegato al budget 2004 pubblicato nel febbraio 2003 ma la Casa Bianca lo impedì». [8]
I tagli di Bush sono stati prorogati per due anni nel dicembre scorso, dai repubblicani per ideologia antistatalista e da Obama nella speranza che contribuissero ad alimentare la debole ripresa. Margiocco: «Con la crisi finanziaria il debito è cresciuto a velocità tripla rispetto agli anni di Bush e solo un calcolo benevolo lo limita attualmente a poco meno del 100% circa del Pil, cioè quasi 15mila miliardi. In realtà mancano circa 3mila miliardi del debito di stati ed enti locali, e altrettanti, secondo un conteggio assai ottimistico, del debito e delle minusvalenze nascoste delle megafinanziarie immobiliari Fannie e Freddie che Washington garantisce in toto. Qualcuno prima o poi dovrà dirlo, anche se l’ex ministro del Tesoro Heny Paulson lo ha già scritto nel suo libro di memorie sulla crisi, On the Brink». [8]
Dalle elezioni di midterm dello scorso novembre, il Congresso è spaccato: i democratici controllano il Senato, i repubblicani la Camera. Frustrato dalle difficoltà della trattativa, la settimana scorsa Obama è sbottato: «Cerchiamo di essere chiari, il Senato è in mano ai democratici, alla Camera ci vorranno dei voti democratici per poter passare un progetto di riduzione decennale e io devo firmare il progetto. È chiaro che con un governo “spaccato” si deve trovare un compromesso. Io ho già fatto enormi concessioni. E invece la loro risposta è priva di flessibilità: my way or the highway dicono (un modo di dire simile a “o si fa così o andate al diavolo”, ndr)». [9]
Il «grande piano» proposto da Obama, 4mila miliardi di tagli in dieci anni, è stato prima accarezzato e poi sconfessato dal capo dei repubblicani, John Boehner, con la motivazione che «aumenterebbe le tasse». [10] In realtà, quando si è trattato di convincere la base politica (gli ultraliberisti dei Tea Party) che forse era giunto il momento di fare qualche concessione, Boehner si è accorto che rischiava di non avere la maggioranza nel partito. [9] Massimo Gaggi: «Quando il leader conservatore, incalzato dai suoi, toglie le tasse dal tavolo del negoziato, spinge i democratici a rimangiarsi anche le aperture sui tagli di previdenza e sanità perché “non possiamo accettare che il prezzo del risanamento venga pagato per intero dai ceti medi e dagli anziani”». [11]
Dopo cinque giorni di discussione consecutiva, i repubblicani hanno presentato, su proposta del falco Eric Cantor (il “bad cop” - polizotto cattivo - dell’opposizione), un contropiano di soli tagli da 2mila miliardi che la Casa Bianca ha giudicato inaccettabile: «Finiranno per pagare giovani che non potranno andare al college, anziani che non potranno avere assistenza sanitaria, veterani che vedranno delle riduzioni nei loro emolumenti». [12] I sondaggi mostrano che l’80% della popolazione americana è favorevole a un’intesa bilanciata con tagli alla spesa pubblica e un aumento delle entrate fiscali. Obama: «Non solo gli elettori democratici, anche quelli repubblicani condividono questo approccio». [13]
La maggioranza degli americani, inclusi milioni di repubblicani, è favorevole ad aumentare le tasse per le fasce di reddito più elevate. [14] Obama: «Nell’ultimo anno i ceo hanno avuto un aumento del reddito del 23 per cento mentre per il dipendente americano medio è stato fra lo 0 e l’1 per cento, chi è che dovrebbe fare sacrifici?». [1] Il presidente vorrebbe almeno alcune piccole concessioni come l’eliminazione di sgravi fiscali per gli aerei dei dirigenti e la correzione della legge grazie alla quale i direttori di hedge funds pagano solo il 15 per cento di tasse rispetto al 35 per cento dovute, concessioni minime che valgono 300 o 400 miliardi, «senza le quali i tagli subiti dai nostri cittadini più poveri o più anziani sembrano osceni». [5]
Temendo di pagare alle elezioni il mancato accordo, il capo dei senatori repubblicani Mitch McConnell, interprete della destra conservatrice classica, ha elaborato un piano alternativo: affidare al presidente la responsabilità di alzare il debito a tappe, per tre volte, giusto quanto basta, fino a tutto il 2012. «Almeno evitiamo l’Armageddon» (l’Apocalisse biblica) è stata la risposta di Obama all’idea di assumersi tutte le responsabilità della manovra. [15] Molti guardano all’esempio del Minnesota, alle prese con una trattativa sul deficit simile a quella nazionale: dopo 15 giorni di serrata che avevano mandato a casa 22mila dipendenti pubblici, il governatore democratico Mark Dayton ha raggiunto un accordo con l’opposizione repubblicana. [16]
Dayton ha promesso di rinunciare «a perseguire un aumento delle tasse se i repubblicani cesseranno l’opposizione». Si dice che la decisiva spinta verso il compromesso sia venuta dalla crescente insoddisfazione degli abitanti per una paralisi amministrativa che iniziava a toccare alcune delle abitudini più popolari, a cominciare dal consumo della birra. Maurizio Molinari: «Il gigante della produzione locale, MillerCoors, rischiava infatti di essere obbligato a interrompere distribuzione e vendita di 39 tipi differenti di bevande per l’impossibilità di rinnovare la propria licenza di commercio, visto che l’ufficio competente a riscuotere l’assegno di 1.170 dollari era stato chiuso sino a tempo indeterminato». [16]
Se in Minnesota è bastata la paura di restare senza birra a spingere verso il compromesso, su scala nazionale i rischi sono ben altri. Quanto al resto del mondo, il problema sono le ricadute sui mercati. Rampini: «Una interruzione sia pure momentanea dei pagamenti di Washington ai suoi creditori planetari può scatenare il panico sui mercati. Stiamo parlando dell’economia più ricca del mondo; della moneta (il dollaro) più diffusa come mezzo di pagamento universale; del titolo (Treasury Bond) più ubiquo e liquido, onnipresente nei portafogli di tutte le categorie di investitori (banche, fondi pensione, assicurazioni)». [3] Margiocco: «Gli Stati Uniti mantengono la tripla A di massima affidabilità delle finanze pubbliche perché sono il perno del sistema mondiale e se loro dovessero perderla non si capisce che cosa potrebbe accadere ad altri». [8]
Negli ultimi giorni le agenzie di rating (Moody’s, Standard and Poor’s) hanno preso a minacciare il downgrading del debito Usa (il primo di sempre, o degli ultimi 70 anni, o dal 1917, a seconda delle fonti, di certo gli Usa non finivano sotto osservazione dal 1996). [17] Gli Stati Uniti non rischiano la fine della Grecia: in casi come questo si parla piuttosto di “default tecnico”, accordo o non accordo non vi sono dubbi sulla disponibilità dei mercati a concedere altri crediti all’America. Nelle ultime settimane il mercato non ha smesso di investire sui buoni del Tesoro americani. I bond decennali hanno visto i rendimenti salire solo al 2,92% dal 2,88%. Il nervosismo tra gli investitori finora è affiorato solo nel costo per assicurare il debito sovrano americano contro un default (+8 per cento). [18]
Note: [1] Maurizio Molinari, La Stampa 12/7; [2] Angelo Aquaro, la Repubblica 16/7; [3] Federico Rampini, la Repubblica 15/7; [4] Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 11/7; [5] Alexander Stille, La Stampa 14/7; [6] g. sar., Corriere della Sera 12/7/2011; Alexander Stille, La Stampa 14/7; [7] Angelo Aquaro, la Repubblica 15/7; [8] Mario Margiocco, Il Sole 24 Ore 12/7; [9] Mario Platero, Il Sole 24 Ore 12/7; [10] Angelo Aquaro, la Repubblica 16/7; Mario Platero, Il Sole 24 Ore 16/7; Il Sole 24 Ore 16/7; [11] Massimo Gaggi, Corriere della Sera 11/7; [12] Angelo Aquaro, la Repubblica 16/7; Mario Platero, Il Sole 24 Ore 16/7; [13] Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 16/7; [14] Mario Platero, Il Sole 24 Ore 16/7; [15] Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 15/7; Angelo Aquaro, la Repubblica 16/7; Maurizio Molinari, La Stampa 16/7; [16] Mau. Mol., La Stampa 15/7; [17] Angelo Aquaro, la Repubblica 15/7; Angelo Aquaro, la Repubblica 16/7; Mario Platero, Il Sole 24 Ore 16/7; [18] Marco Valsania, Il Sole 24 Ore 15/7.