Giorgio Ficara, La Stampa 3/7/2011, 3 luglio 2011
La lingua dei nostri scrittori sembra inglese d’aeroporto - Letteratura e modernita’: e’ un rapporto ancora plausibile? L’identita’ - magari ideale, o idealistica - di cultura e nazione e’ pensabile oggi come la pensava non dico De Sanctis, ma Gramsci oppure Italo Calvino o Sciascia o Pasolini? La domanda potrebbe essere posta in questo modo: ci sono ancora cose che solo la letteratura puo’ esprimere, valori trasmissibili, veicolabili, poniamo, solo poeticamente? E questi valori bisogna insegnarli nelle scuole, oppure le scuole stesse devono limitarsi ai valori, necessariamente diversi, veicolati dalla tv, da Internet, dai giornali? Quel modo di pensare, che e’ la LINGUA letteraria di una nazione, quel modo irripetibile e unico, dovremmo lasciarlo dietro di noi? Se io, quando sono o mi sento solo, so che la solitudine e’ anche un sonetto di Petrarca (XXXV, «Solo e pensoso»); e’ anche: misurare la campagna in cerca di un senso e nella disperazione di non trovarlo, ma sempre nell’effusione di una musica inevitabile e dolcissima: so innanzitutto che questa e’ una solitudine diversa, mia, del mio popolo, nella profondita’ del tempo
La lingua dei nostri scrittori sembra inglese d’aeroporto - Letteratura e modernita’: e’ un rapporto ancora plausibile? L’identita’ - magari ideale, o idealistica - di cultura e nazione e’ pensabile oggi come la pensava non dico De Sanctis, ma Gramsci oppure Italo Calvino o Sciascia o Pasolini? La domanda potrebbe essere posta in questo modo: ci sono ancora cose che solo la letteratura puo’ esprimere, valori trasmissibili, veicolabili, poniamo, solo poeticamente? E questi valori bisogna insegnarli nelle scuole, oppure le scuole stesse devono limitarsi ai valori, necessariamente diversi, veicolati dalla tv, da Internet, dai giornali? Quel modo di pensare, che e’ la LINGUA letteraria di una nazione, quel modo irripetibile e unico, dovremmo lasciarlo dietro di noi? Se io, quando sono o mi sento solo, so che la solitudine e’ anche un sonetto di Petrarca (XXXV, «Solo e pensoso»); e’ anche: misurare la campagna in cerca di un senso e nella disperazione di non trovarlo, ma sempre nell’effusione di una musica inevitabile e dolcissima: so innanzitutto che questa e’ una solitudine diversa, mia, del mio popolo, nella profondita’ del tempo. Oggi questo legame - cultura, identita’ - e’ per noi debolissimo. In particolare, la cultura degli italiani non ha piu’ a che fare con un progetto di definizione di se’, ne’ con una memoria di se’. E’ letteralmente una cultura in crisi. Che cosa e’ avvenuto? Una causa, forse la prima, di questa attuale crisi, e’ la grandezza, la forza straordinaria, l’impeto apocalittico della letteratura italiana nel Novecento. Montale, Gadda, sono due giganti, zoppi fin che si vuole, resi quasi afoni o balbettanti dall’eccesso di male storico delle due guerre. Ma si osservino da vicino questi due giganti e si ammettera’ che una tale grandezza dei padri puo’ rendere incerti e oscuri i figli, puo’ bloccarli sulla soglia dell’espressione: se e’ stata detta, cosi’ esemplarmente, l’ultima parola, come trovare il coraggio di dire l’ultima dopo l’ultima, l’ultimissima, oppure di negare che quella parola fosse esemplare e conclusiva, e ricominciare tutto daccapo? Anche se Montale stesso ci ha detto che possiamo continuare, che la letteratura non finira’ a causa del male storico, ma anzi vivra’ fino al giorno in cui vivra’ l’uomo, e ci ha ripetutamente indicato questa direzione umanistica, noi abbiamo incominciato a ripetere il «tutto e’ gia’ stato detto» non come una parola di solidarieta’ ma come una parola di disperazione. La letteratura, dopotutto, e’ paradossale, e’ un modo di stabilire un rapporto col tempo, con la storia, ma e’ spiegabile in se’, si determina al di la’ delle condizioni stabilite dal tempo, dalla storia. E questo dato, ieri evidente, per noi oggi e’ meno evidente. E’ come se con un valore superstite, un dono tra le mani, non sapessimo come muoverci, e fossimo impacciati in un mondo che non sa ricevere. La seconda causa di crisi e’ molto nota: la letteratura oggi e’ minacciata dall’informazione, dalla «vetrina», da un e’talage di vita esterna. Naturalmente, non ci sarebbe alcun male, per l’uomo, a diventare esterno a se stesso, se non perdesse cio’ che lo definisce in quanto uomo, cio’ che non si vede, un quid di umanita’ e di peso reale, o spirituale (realta’, spirito: dopotutto, anche partendo da un orizzonte razionale, non sono la stessa cosa?). Ma questa auspicabile riconversione all’umano, e alle humanities, oggi, in Italia, e’ molto lontana da venire. I sociologi ci informano che non abbiamo capito niente e che la letteratura non deve costituirsi ne’ dichiararsi come peso, margine di resistenza del LINGUAggio alla leggerezza della vetrina, ma anzi deve scivolare sulla vetrina stessa. Se tutto questo e’ vero, si tratta pero’ di una verita’ che non ci serve: nessuno scrittore, per definizione e per vocazione, ne’ oggi ne’ mai si limitera’ al riscontro, all’osservazione della parte visibile di un sistema. Allineando senza soluzione di continuita’ libri italiani canonici e non ancora o non del tutto canonici, «L’Italia dei libri» celebra e festeggia la letteratura, una stregoneria utile a rifondare, per l’appunto, l’umano, secondo lo stesso Montale. Ma festeggia altresi’ una nazione che nella sua letteratura, secondo un progetto idealistico quanto si vuole, si definisce e si costruisce piu’ perfettamente. Naturalmente, qualcuno potrebbe obiettare, nei particolari, che tra I Vicere’ di De Roberto (1894) e Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro (1994) non passa solo un secolo, ma un’era geologica. Oppure, che tra Ferito a morte di Raffaele La Capria (1961) e Oceano mare di Alessandro Baricco (1993) passano pochi anni, ma decisivi per mettere «in pericolo» (l’espressione e’ di Todorov) la nozione stessa di letteratura. Si tratta, in effetti, di un salto, di una frattura visibile. Che cosa e’ accaduto? Perche’ il romanziere italiano contemporaneo, con il suo idiometto planetario, indefinitamente traducibile e deducibile dall’informazione, ha rinunciato alla continuita’ con se stesso, con la sua stessa letterarieta’ e i suoi fondamenti? Perche’ scrive in una specie di inglese, quello astrattamente parlato in tutti gli AEROPORTI del mondo? Perche’ ha deciso una volta per tutte che la letteratura non ha nulla a che fare con il peso della LINGUA (italiana)? «L’Italia dei libri» non risponde a queste obiezioni, ma anzi le ammette e le scatena. Indicando la Tradizione come valore, e la continuita’ come via maestra su cui viaggia felicemente il valore, di fronte all’evidenza del salto, o della frattura, affida a noi la responsabilita’ di concludere, o di cadere.