Riccardo Sorrentino, Il Sole 24 Ore 15/7/2011, 15 luglio 2011
DIZIONARIO DEL DEBITO - È
«brutto come il debito», dice un proverbio in molti dialetti italiani. Quando si parla del debito pubblico, la bruttezza è però poco evidente. Perché per i risparmiatori, le famiglie, è innanzitutto un bel credito, che offre un rendimento ed è per di più (relativamente) sicuro; mentre per i politici - c’è poco da fare - è uno strumento "dolce", illusorio, che finanzia le scelte pubbliche evitando l’aumento delle tasse, con tutti i dolori elettorali che questo comporta.
Quei debiti, prima o poi, andranno però rimborsati davvero, almeno in parte, e quelle imposte, in sostanza spese prima di essere riscosse, andranno pagate. Si spera il più tardi possibile, ma questo può trasformare il debito pubblico in un poco nobile trasferimento degli oneri sulle generazioni future: figli, nipoti, pronipoti. A meno che, con un sano rigore, non lo si mantenga a livelli sostenibili in modo da poterlo rinnovare tutto e indefinitamente.
Si spera anche che il debito sia usato per rendere più produttivo il Paese, come farebbe un saggio imprenditore con la propria azienda. In questo modo, semplificando un po’ le cose, l’eventuale rimborso "peserebbe" meno su un reddito nel frattempo aumentato.
La cosa che avviene spesso, invece, è che il debito pubblico vada prima o poi fuori strada, lasciando le famiglie "per terra": o perché i governi devono ridurre in fretta e furia le spese pubbliche, o perché, dichiarano fallimento - default... - e i loro risparmi scompaiono nel nulla. Una cosa davvero brutta. Come il debito pubblico.
TESTI DI
Riccardo Sorrentino
COME TROVARE L’EQUILIBRIO
Il rigore di Bruxelles
La Ue preme perché ogni Paese metta
vincoli ai bilanci nella Costituzione
e impone il pareggio nel 2014
Le risorse per lo sviluppo
L’indebitamento può essere una leva
per l’economia ma più spesso
è una zavorra per le generazioni future
Il fallimento da evitare
Da Fondo monetario e Unione europea
in arrivo gli aiuti per salvare gli Stati
incapaci di far fronte ai propri impegni
D
DEFAULT
È, semplicemente, il fallimento: l’incapacità di uno Stato o di un’azienda di rimborsare la totalità dei debiti. In questo caso, i Governi aprono in genere una trattativa con gli investitori per ottenere un rinvio o una riduzione (haircut) dei rimborsi. Per evitare i default, si ricorre spesso ai prestiti del Fondo monetario internazionale, concessi sotto condizioni molto stringenti, riforme strutturali e austerità. Nei casi più gravi si ricorre a procedure preventive, di ristrutturazione "ordinata".
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Per le agenzie di rating, però, il default può scattare prima di un effettiva insolvibilità. Per esempio, un impegno delle banche di sottoscrivere di nuovo i bond in scadenza, che è stato prospettato per la Grecia, è considerato una forma di default tecnico e non un salvataggio.
DEFICIT (E CRESCITA)
«Perché l’economia cresca, lo Stato deve spendere, più di quanto ricavi dalle tasse». Anche se un po’ caricaturale, a volte sembra proprio questa l’immagine della politica fiscale disegnata da molti italiani (e non solo): un Governo generoso, che distribuisca a piene mani, creando un deficit pubblico da finanziare con nuovo debito, e alimenti la crescita.
Le cose non sono così semplici. Non sempre il disavanzo si traduce in maggiori consumi pubblici, quelli che entrano nella contabilità del Pil; né è chiaro, anche per la complessità di strumenti e obiettivi della politica, la moltiplicazione nel tempo degli effetti delle spese pubbliche.
D’altra parte non mancano esempi di Paesi in surplus che crescono; l’esempio classico sono gli Usa di Bill Clinton.
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Le politiche di stimolo fiscale portano il nome di John Maynard Keynes, il quale chiedeva in realtà solo investimenti pubblici che si sostituissero a quelli privati per far crescere l’economia nei momenti di crisi, mentre era molto scettico sugli altri trasferimenti di reddito, da lui considerati inflazionistici e inutili.
È al contemporaneo Irving Fisher che si devono piuttosto ricollegare le attuali politiche fiscali. Molte di queste si sono rivelate inefficaci. Esempio classico sono incentivi e sussidi alle aziende, molto premianti politicamente - creano l’illusione di "salvare posti di lavoro" - ma alla fine dannose sul piano economico.
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RATING (E RISCHIO PAESE)
È il più temuto dei voti: un’indicazione che alcune agenzie - tre le principali, Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch - danno sulle obbligazioni degli Stati e, a pagamento, delle aziende per valutarne l’affidabilità.
È anche il più controverso: troppo spesso i "titoli tossici" protagonisti dell’ultima crisi finanziaria avevano la "tripla A", il voto che in teoria dovrebbe garantire la sicurezza maggiore. Il ruolo delle agenzie, e il loro oligopolio, è dunque fortemente contestato.
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Il ruolo dei rating in realtà è piuttosto diversificato. È sicuramente cruciale e delicato nelle obbligazioni strutturate - come quelle costruite attorno ai mutui subprime che hanno scatenato la crisi - perché spesso gli investitori non conoscono null’altro che il loro "voto" mentre tutte le altre informazioni restano di proprietà dell’emittente, persino dopo il default.
È altrettanto forte per i piccoli Stati, ai quali i mercati dedicano un’attenzione marginale: nei momenti di difficoltà attraversati dai Paesi baltici, o dall’Islanda, le agenzie si sono a volte rivelate più potenti delle banche centrali.
Per le grandi economie e aree finanziarie come Eurolandia il rating non è però l’unica informazione disponibile e spesso le agenzie, con i loro declassamenti, ratificano una situazione già ampiamente nota che avrebbe comunque avuto effetti su quotazioni e rendimenti.
Non si può dimenticare che, nei mercati liquidi, il rendimento di un’obbligazione pubblica e il suo spread, la sua differenza nei confronti dei Treasury Usa o i Bund tedeschi, è una misura del rischio-Paese anche più rilevante del rating (può però essere distorta da politiche monetarie generose per troppo tempo.
S
SOSTENIBILITÀ
Fino a quando è sostenibile un debito pubblico? La risposta non è facile, anche per la complessità delle politiche fiscali e dei loro effetti. L’unica risposta può venire dalle ricerche empiriche. Al momento sembrano mostrare, innanzitutto, un effetto negativo del debito pubblico sulla crescita quando è inferiore al 30% circa e superiore all’80% del Pil ossia del valore aggiunto (o del reddito) generato in un anno dal Paese. Un livello inferiore sarebbe quindi un’occasione perduta, uno superiore un problema serio. I parametri di Maastricht della Ue indicano nel 60% il livello massimo di riferimento.
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Il trattato di Maastricht fissa anche un altro criterio, quello che impone di tenere il deficit al di sotto del 3% del Pil. La norma aveva uno scopo fondamentale: evitare che la generosità fiscale di un Paese fosse pagata da tutti. Quel livello massimo garantiva così automaticamente il rientro del debito pubblico sotto il 60% del Pil, a patto però che la crescita economica fosse "sufficiente" e l’inflazione non superasse in media il 2 per cento. A parte la dinamica dei prezzi, le cose sono andate molto diversamente. Ora la Ue, visti i rischi di politiche fiscali contraddittorie nei diversi Paesi, chiede di introdurre il vincolo della disciplina di bilancio nella Costituzione e impone il pareggio nei conti nel 2014.