Giorgio Dell’Arti, La Stampa 15/7/2011, 15 luglio 2011
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 126 - BOOM POI SBOOM
Cioè Cavour si illudeva che, arricchendo il Paese, si sarebbe versata allo Stato, attraverso il fisco, una quota di ricchezza sufficiente a fronteggiare deficit e debito.
Illusione e testardaggine. Non si rassegnava all’idea di non essere capito. Tutte colpe, in un uomo politico. A metà ‘53, poi, finì il boom mondiale che aveva favorito quegli arricchimenti, quel moltiplicarsi di iniziative. Pessimi raccolti e improvvisa scarsità del grano di Odessa, dato che i russi avevano cominciato a far la guerra ai turchi.
Perché in realtà, con i metodi di Cavour, l’economia fino ad allora aveva ripreso bene.
Molto bene. Tra il 1851 e la metà del 1853 si visse in un clima che definire euforico è poco. Il Paese era tutto un ribollire d’iniziative e Cavour ne alimentava la febbre favorendo, ogni volta che aveva senso, l’intervento pubblico…
Non era un liberale? Non doveva tenere lo Stato lontano dai mercati?
E infatti incontrò la ferma opposizione dei liberisti puri, che in Parlamento gli si misero addirittura contro. Ma il conte era per far le cose con un minimo di ragionevolezza, senza fondamentalismi di alcun tipo. Quindi, per esempio: cedette ai privati parecchie miniere sarde, ma mise capitale pubblico per render possibile una linea Genova-Voltri. Non voglio dire che abbia inventato le partecipazioni statali, ma certo non bacchetterei chi lo affermasse. Chi avrebbe potuto bucare la galleria dei Giovi? O portare l’acqua dello Scrivia da Busalla a Genova? E la flotta di navi in ferro? E la manutenzione di un parco locomotive che si faceva sempre più imponente? Le stesse ferrovie erano mezze pubbliche (266 chilometri) e mezze private (264). E tutte queste energie, tutti questi capitali erano suscitati per « aumentare l’attività economica nelle parti più vicine come nelle più lontane », « per mettere il Piemonte alla testa della civiltà italiana ». La creazione di strade, ponti, trafori, ferrovie, lo sviluppo del sistema postale e di quello bancario (compreso lo sforzo per abituare il pubblico alla circolazione della carta), la moltiplicazione delle vie di navigazione, tutte infrastrutture che in parte devono anche essere « dal Governo esercitate », e che « non sono di natura strettamente commerciale ...». I liberisti puri gli rispondevano che questo era protezionismo sotto mentite spoglie e Cavour, abbastanza sfinito dalle accuse che gli erano mosse dai suoi amici, replicava con il suo vecchio principio che « non bisogna esagerare con le parole ». E del resto c’era poco da discutere. « Noi - scriveva Francesco Ferrara nel luglio del 1853 - siamo in uno di que’ periodi di prosperità economica, che sembrano appositamente preordinati, nel sistema del mondo morale, per ridonare ai popoli, in pochi anni di ragionevole e libero governo, ciò che in una serie di restrizioni e arbitrii abbian mancato di guadagnare. Niuno, pochi anni or sono, avrebbe avuto il coraggio di predire che a momenti si sarebbero raddoppiate, quasi, in edifici ed in abitanti, le principali città dello Stato; che strade, telegrafi, sistemi di irrigazione, navigazioni transatlantiche, banchi ipotecari, compagnie di assicurazione ecc. ecc., tutto si sarebbe improvvisato, e successivamente e rapidamente eseguito; tutto avrebbe trovato, in mano ad azionisti vogliosi, masse enormi di capitali, come se sbucassero dalla terra, e se i nostri antenati non avessero ad altro pensato, che a seppellirveli per aspettare il giorno in cui, all’aura della libertà, sarebbe loro permesso di presentarsi ad animare e sorreggere lo spirito delle grandi intraprese economiche ».
Era merito di Cavour? O era merito del boom mondiale?
Ma l’assolutismo, con i suoi denari ben conservati in cassaforte, avrebbe saputo profittar molto poco del boom mondiale. Che però quando finì, a partire dall’autunno, lasciò a terra parecchi di quelli che s’eran fatti troppo prendere dall’entusiasmo, che s’erano troppo lanciati. Questi, con le Borse a un tratto a precipizio, si trovarono adesso con le spalle al muro. Nel mondo al rialzo della prima parte dell’anno c’era infatti evidentemente una componente speculativa. Hambro scrisse a Cavour: « Quelque fois il m’a paru que vous mettez un peu trop les épérons dans les flancs de votre cher pays. Espérons que je me trompe ». Adesso però i mercati del Mar Nero erano stati chiusi, e c’era bisogno di contante, perché ora la carta veniva accettata malvolentieri, e il sistema creditizio piemontese, invece di aiutare gli acquisti dall’estero di cereali, era costretto a importare moneta metallica. Nei paesi a economia protezionista l’improvviso impennarsi del prezzo dei cereali venne affrontato con i soliti provvedimenti: divieto di esportare e abbassamento dei dazi d’entrata sulle granaglie. Cavour non poteva coerentemente vietare le esportazioni (soprattutto: era certo che non sarebbe servito), ma poteva profittare della congiuntura per eliminare o ridurre ancora i dazi sul grano.
Ma lui, in quello sboom, stava perdendo o no? Perché speculava ancora con i francesi attraverso la società del mulino, se non ricordo male.
Non stava perdendo, anzi. E infatti gli organizzarono una manifestazione sotto casa. Con l’intenzione di ammazzarlo.