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 2011  luglio 15 Venerdì calendario

LA FUGA DEI CERVELLI È UNA RISORSA

Il 15 per cento degli accordi commerciali tra Cina e Stati Uniti passa attraverso i manager cinesi che lavorano in America», ripete Ledo Prato, segretario generale di Mecenate 90. Il dato spiega come, e perché, forse è venuto il momento di considerare la nuova emigrazione, la fuga dei cervelli, la diaspora dei creativi più come una risorsa che un problema.

L’associazione no-profit Mecenate 90 (il presidente è Alain Elkann, il comitato scientifico comprende Giuseppe De Rita, Giuliano Amato, Salvatore Carrubba, Giuseppe Galasso, Salvatore Veca) ha lanciato da qualche settimana un sito Internet che prova a tessere una rete tra i giovani italiani che hanno lasciato il nostro Paese alla ricerca di opportunità e a valorizzarli. Fedele al motto secondo cui «nell’economia globale non è decisivo il luogo in cui si produce ma le relazioni che si sviluppano», www.clubdeicreativi.it offre a tutti i giovani italiani all’estero la possibilità di raccontare la propria storia e - almeno nelle intenzioni - di renderla utile al proprio Paese d’origine.

«Abbiamo presentato l’iniziativa al Ministro della Gioventù Giorgia Meloni, che ci ha incoraggiato, ma ci ha anche detto che non può aiutarci; poi abbiamo chiesto al Ministero degli Affari esteri di darci una mano attraverso gli istituti italiani di cultura all’estero per avere una sorta di controllo di qualità sulle storie che presentiamo sul sito, ma intendiamo difendere l’autonomia della nostra iniziativa», spiega Prato. Che aggiunge: «Nessuno dei nostri cervelli in fuga alla fine torna: sono troppo diverse le condizioni di vita e del lavoro. E le politiche pubbliche possono farci poco, se non aiutare a potenziare il sistema di relazioni. Che è esattamente il nostro obiettivo».


TRE STORIE DI SUCCESSO -
“I cinesi mi vogliono in cattedra”
[P. NEG.]
Antonio Inglese Salernitano, si occupa dei lavori pubblici della città di Shenzhen, nove milioni di abitanti

Spesso, in questi anni, mi hanno chiesto, con curiosità, quasi sempre mista a uno strano timore, come sono finito in Cina e perché. La mia risposta standard è in tre frasi: per reazione all’incomprensibile staticità del sistema Italia; per necessità di evoluzione; per il fascino della contaminazione tra due culture diverse ma con dettagli molto simili».
Antonio Inglese, architetto, salernitano, cinque anni fa, alla soglia dei 40 anni, decise di andare a vedere la Cina da vicino: tre mesi dopo vinse il concorso internazionale per riprogettare la zona del porto di Baoan, a Shenzhen, in Cina; l’anno dopo aprì uno studio che ora conta 40 dipendenti e poi divenne consulente per i lavori pubblici della città di Shenzhen (nove milioni di abitanti): «Oggi le università cinesi mi chiamano per parlare del mio modo di progettare (ogni linea ha un significato), a Shenzhen mi hanno proposto una cattedra, mi invitano a far parte di commissioni internazionali in cui valuto progettisti presso i quali una volta mi sarebbe piaciuto lavorare. Questo è il mio tempo, in Oriente, ma senza ciò che l’Italia mi ha dato, non avrei avuto niente da dire. Per questo, nonostante tutto, ringrazio di essere italiano e vado avanti contento di aver lasciato una traccia di me».

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“Ora cerco il meglio dei due mondi”
[P. NEG.]
Marco Marinucci Con la sua fondazione seleziona le migliori idee italiane di nuovi business

Marco Marinucci non si è accontentato di finire nel centro esatto del nuovo mondo, a Google, dove lavora: ora, con la fondazione che ha ideato, «Mind The Bridge», aiuta ragazzi italiani con buone idee e farsi sentire (e finanziare) nella Silicon Valley. Questa è la sua storia: «Ho abitato a Milano, Roma, Parigi, Barcellona, Nizza. Poi, quando sono finito in California, sono rimasto folgorato dalle opportunità, dallo spirito imprenditoriale e dall’attitudine positiva di San Francisco e ho fatto in modo di rimanervi il più possibile: dopo 10 anni, non riesco a immaginarmi altrove. A Google sono arrivato nel modo più tradizionale, mandando il curriculum, dopo mesi di colloqui, con presentazione finale al “senior management”, portando in dono un panettone (pare sia piaciuto). L’altra proposta di lavoro che avevo era come agente della Cia! Lì ho capito che il mondo è uno, lo sviluppo tecnologico lo rimpicciolisce a vista d’occhio e le opportunità abbondano. Che la condizione necessaria per coglierle è conoscerle. Poi avere il senso dei propri limiti e punti di forza: avere una visione globale ha solo punti di forza. È proprio guardando indietro che ho deciso di creare “Mind the Bridge”, per avvicinare il meglio dei due mondi e far cogliere le opportunità a entrambi».

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“Il mio futuro? In Italia verrò solo in pensione”
[P. NEG.]
Diana Santi Da tempo trascorre un mese a Firenze a lavorare per la New York Film Academy

Tutte le estati, negli ultimi sette anni, Diana Santi trascorre un mese nella sua città, Firenze, a lavorare per la New York Film Academy. Quest’anno si fermerà un po’ di più: ad agosto comincia a girare un film, «Florence In Love», con attori e personaggi americani, scene e ambientazioni italiani. «Ma se provo a immaginare il mio futuro, mi vedo lavorare all’estero e in pensione in Italia».

Diana, che nel curriculum italiano aveva un po’ di spot pubblicitari come aiuto regista, è andata in America per studiare cinema, «e pochi mesi dopo, da studentessa, mi è capitato di fare un colloquio d’assunzione nella stessa scuola: non so se sarebbe potuto succedere in Italia, là c’è molto più meritocrazia. E puoi trovarti in ruoli di responsabilità anche se non hai neppure 30 anni, come è capitato a me. Per poi notare gli sguardi di stupore dei miei interlocutori, quando tornavo in Italia a organizzare i corsi estivi della mia scuola».

Diana si è fatta una certa idea dell’Italia: «Mi sembra sempre peggio, ma non so se è la situazione o siamo noi a essere peggiorati. Ci lamentiamo di continuo e non ci rendiamo conto che gli altri ci guardano con ammirazione. Gli italiani hanno stile, ce l’hanno nel sangue, ma fingono, chissà perché, di non saperlo».