Franco Marcoaldi, la Repubblica 15/7/2011, 15 luglio 2011
CARLO CECCHI: «COSI’ IL VARIETA’ MI HA SALVATO DAL BIRIGNAO»
Fa un gran caldo, e di mio inclinerei all´indolenza, ma Carlo Cecchi sprizza energia: il suo racconto di un avventuroso viaggio in autobus alla volta di un villaggio del Camerun dove si doveva tenere il funerale di un uomo eminente, è irresistibile. Sembra un testo di Jarry.
Da tempo questo fuoriclasse della scena italiana trascorre buona parte dei suoi giorni tra Parigi e, per l´appunto, il Camerun: lo fa, dice, per ecologia mentale. Nella capitale francese ci va volentieri perché «è una città comoda»; nello stato africano perché vi circolano «un´energia e una vitalità impensabili da noi. Anche se qualche segnale nuovo chissà, forse sta maturando». Cecchi se ne è reso conto di recente, quando l´Accademia d´Arte Drammatica gli ha affidato un gruppo di giovanissimi allievi per accompagnarli nel saggio finale.
«All´inizio ero molto scettico, ma mi sbagliavo. Mi sono trovato di fronte a dei ragazzi che mi hanno sorpreso, anzi commosso: per talento, slancio e serietà. E così il saggio si è trasformato in uno spettacolo, Il sogno di una notte d´estate, che ha dato vita a una tournèe. C´è una cosa curiosa, però: sul palcoscenico quei ragazzi danno prova di grande maturità, dopodiché nella vita ripiombano nella passività. Sono dipendenti dagli agenti e dai provini, poco liberi mentalmente. So che la libertà assoluta è una gran balla. Schopenhauer ce lo ha spiegato: ognuno può fare quello che vuole, però non può volere quello che vuole. Ma santiddio, almeno un po´ di tensione verso la libertà, deve pur esserci nei giovani».
Forse in giro non ci sono più tante persone che insegnino a coltivarla. È diverso per chi, come lei, ha avuto la fortuna di incontrare un genio come Eduardo De Filippo. Vogliamo tornare a quei primi anni Sessanta?
«Ero un allievo dell´Accademia piuttosto problematico. Il paradigma della recitazione che veniva insegnata non mi convinceva. Si fondava su rimasticamenti di intonazioni medie precedenti. Una convenzione stantia, quasi in decomposizione, che tuttavia veniva ancora trasmessa. Anzi, imposta. Ebbene, caso volle che io andassi a Napoli per fare l´università e dunque mi imbattessi nel teatro napoletano, che non vuol dire automaticamente Eduardo. Parlo di un teatro popolare allora ancora molto attivo. Si facevano sceneggiate e varietà, con attori straordinari. E io, che già buttavo sull´intellettuale e studiavo Brecht e Mejerchol´d, ritrovavo le loro teorie incarnate da quegli attori. Cosa che di certo non accadeva al Piccolo, con tutti quei birignao epici. Nel frattempo mi imbatto nel Living: altre voci, altre stanze. Voci che mi fanno perdere la capa, malgrado non mi convincesse un´eccessiva libertà degli attori e un´organizzazione claustrofobica, da setta. È a quel punto che incontro Eduardo, il quale mi invita a interpretare Felice Sciosciammocca. Ma io non sono napoletano, obietto. Fa´ niente, dice lui. Da allora ho incorporato la tradizione napoletana, incrociandola con l´esperienza del Living».
Si parlava di cultura popolare, espressione che oggi si farebbe gran fatica a utilizzare.
«Quando ero ragazzino io, della televisione non ce ne fregava niente. I grandi avevano tutt´altro tipo di comunicazione rispetto a quella odierna. Prendi la dimensione del racconto: grazie ad essa non eravamo tagliati fuori dalla storia. Oggi sembra che ogni vita cominci nel momento stesso in cui si è nati. Sento dire: sono dell´87 e dunque non posso parlare di quanto è accaduto prima. Oh bella, allora io non potrei parlare del fascismo perché non ero ancora nato. Aggiungo che si andava ancora a teatro: perché qualcuno ti ci portava. E lo stesso accadeva con l´opera. Perché non è che uno a otto anni dice: sai che è, vado a vedere il Rigoletto. No, erano i genitori, gli zii, a portartici. Così come ti portavano al cinema, in sale gigantesche che contenevano anche duemila persone. Ma per tornare al teatro, non credo che nella mia città, a Firenze, ci fosse la stessa vivacità che c´era a Napoli. Per infinite ragioni, a cominciare da quella principale: la lingua napoletana è intimamente teatrale».
Mentre non lo sarebbe la lingua italiana.
«Quando dissi a mio nonno che volevo fare teatro, lui rispose: bravo, poi una pausa, ma tu canti? No nonno, io non canto. Ah no, e allora che teatro tu vo´ fare? L´unico teatro a cui pensava lui era l´opera, il teatro musicale».
L´italiano dunque non è lingua teatrale. Come la mettiamo con Goldoni o Pirandello?
«Ma in che lingua hanno scritto? Sono stati costretti a inventarsene una. Prendi La locandiera di Goldoni: è un misto di veneziano, fiorentino letterario e francese. L´esperienza della commedia dell´arte è stata immensa da un punto di vista tecnico, ma poi in quale lingua è fiorito il teatro? In francese, con Molière».
Ritorniamo al ´68, alla prima esperienza del collettivo Granteatro. Quanto contò in quella vicenda l´aspetto battagliero?
«Moltissimo, a partire dal nome. Avevamo un padrino e una madrina d´eccezione: Eduardo ed Elsa Morante. Il nome proposto da Eduardo mi fece rimanere un po´ sgomento: ‘i ruspanti´. Elsa invece disse: perché non lo chiamate il Granteatro?... il Piccolo c´è già».
Come tutti i grandi attori, sosteneva Cesare Garboli, Cecchi non ama il teatro, ma in qualche modo lo odia. In lui non c´è nessun compiacimento nel sostenere l´ipocrisia rivelatrice della recitazione; piuttosto un senso di sofferenza, quasi di nausea. Cecchi odia il teatro perché prova nostalgia rispetto a una totalità gioiosa definitivamente perduta.
«È verissimo. Ma assieme a questo patimento, a questa nostalgia, c´è un aspetto comunque liberatorio, altrimenti risulterebbe insostenibile. Il teatro è la rappresentazione di quella nostalgia, ma anche la liberazione da essa. Perché l´accadimento accade. E siccome spero che questo atto liberatorio continui, non venga definitivamente travolto, io, che sono un coach della lingua teatrale, più che un regista, cerco di insegnare cosa significa recitare».
E cosa insegna il coach Cecchi ai giovani attori?
«Innanzitutto, ad ascoltare. Poi a dimenticare la parte».
Dimenticare la parte? È un paradosso.
«Fino a un certo punto. Se tu attore ascolti, e conosci la parte, dopo aver ascoltato farai in modo che la tua battuta nasca da sé, in quel momento. Naturalmente per ottenere questo occorre un grande training. Occorre abbandonarsi e abbandonare la paura. E rischiare. Anche di non essere un attore».
Ci sono altri insegnamenti?
«Sì, il più importante di tutti: bisogna essere capaci di creare, in scena, un rapporto fisico, non solo con la voce, ma anche con il corpo. Bisogna che si determini uno spazio triangolare. Lo dico sempre agli attori: dovete recitare pensando che il vostro partner sia sul palcoscenico e allo stesso tempo in mezzo al pubblico. Un triangolo, appunto. Fondamentale: perché dà plasticità, volume al teatro».
Osservando la politica italiana, non le viene mai il desiderio di utilizzarla teatralmente?
«Non sono un drammaturgo. E di fronte alla farsa sinistra in cui siamo precipitati, per un naturale moto di vergogna mi ritraggo, evito di entrare nella parte del pornografo. Ciò detto non so cosa darei per trovare qualcuno capace di farlo, ma gli unici drammaturghi politici che conosco sono quelli inglesi. Mi sono stufato di quanti si occupano della zia e della cugina, o di un post post beckettismo di cui non mi importa niente. Per parlare della politica italiana, occorrerebbe il genio di un Karl Kraus o di un Bernhard. Ce n´è qualcuno?».