Giorgio Dell’Arti, La Stampa 14/7/2011, 14 luglio 2011
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 125 - FAR PAGARE LE TASSE
Prime mosse di Cavour capo del governo?
Trovare i soldi. L’Austria era stata saldata, ma in giro c’era rendita piemontese per 300 milioni. Solo di interessi si pagavano 25 milioni l’anno. Lo Stato spendeva per 146 milioni l’anno e incassava per 107.
Come mai? Per i danni di guerra non avevano pagato che una settantina di milioni...
Un quarto del bilancio se ne andava in spese militari. Un altro dieci per cento finanziava la costruzione delle ferrovie. Carlo Alberto, al momento di varare lo Statuto, aveva tagliato la tassa sul sale. Cavour, da ministro delle Finanze, aveva abbassato i dazi. Risultato: lo Stato incassava meno soldi.
Quindi?
Bisognava mettere tasse.
Un’altra volta mi ha detto che Cavour era nemico delle tasse.
Il conte pensava in termini di sistema. L’assolutismo campava con la tassazione indiretta, faceva cioè pagare un tanto quando compravi la carne o i sigari. In questo modo erano colpiti tutti, senza differenze tra poveri e ricchi. Per far pagare di più i ricchi bisognava tassare i redditi e i patrimoni. Era forse possibile tassare i patrimoni (colpendo le finestre o le carrozze), ma come accertare i redditi? Si tentò la via della dichiarazione personale, la stessa che adottiamo noi oggi. Un fallimento completo.
Dicevano bugie.
Alla grande. Cavour: « La malavoglia del pagare continua sotto il governo libero come sotto la monarchia assoluta ». Ponza di San Martino: lo Statuto « s’invoca soltanto quando si stima di poterne trarre profitto, mentre ogniqualvolta impone una gravezza o stabilisce l’eguaglianza fra i cittadini più non si osserva ». Le denunce erano tutte false. Torino risultava tre volte più ricca di Genova (una città da cui parevano spariti i banchieri), la Savoia dichiarava metà del reale, nel Nizzardo risultarono due sole dichiarazioni veritiere. L’opposizione più tenace al nuovo sistema fiscale si aveva in Senato, e il conte tentò invano di ottenere da Vittorio Emanuele un’infornata che ristabilisse gli equilibri. Alla Camera si misero di traverso anche i democratici. Lorenzo Valerio si oppose a un’imposta sulle industrie e sulle professioni con l’argomento che questa tassa « venendo a ferire così gravemente i medici, gli avvocati, i geometri, gl’ingegneri, i farmacisti, i fabbricanti, i piccoli operai, i piccoli negozianti viene a ferire proprio l’avanguardia dell’esercito della libertà, dei difensori della Costituzione contro la reazione ». Cioè alcuni ceti - secondo i democratici - andavano esentati per benemerenze politiche. Si vedeva qui l’alba di una regola, che cioè in democrazia i voti si comprano. Cavour trovava però una forte resistenza anche nella burocrazia che avrebbe dovuto applicare quel sistema nuovo, verificando le dichiarazioni e modificandole d’autorità. Gli apparati, formati dagli stessi uomini dell’epoca assolutista, non avevano fede in quel modo di finanziare la cassa pubblica e sentivano ripugnanza per le fatiche che comportava. In sostanza, il nuovo sistema fiscale risultò un fallimento. Il conte andò a chiedere altri soldi ai banchieri. Spuntò un’ulteriore emissione per una cinquantina di milioni. Rothschild, che voleva rientrare ad ogni costo, gli fece condizioni impossibili da rifiutare.
Con 300 milioni sul groppone...non era troppo indebitarsi ancora?
C’era l’illusione del boom e la fiducia che la crescita economica del Paese avrebbe banalizzato deficit e debiti. « Noi abbiamo studiato una politica di azione, una politica di progresso; onde arrivare a ristabilire l’equilibrio delle finanze invece di restringerci e di rinunciare a qualunque idea di miglioramento abbiamo preferito di promuovere tutte le opere di pubblica utilità, di sviluppare tutti gli elementi di progresso che possiede il nostro Stato, di svegliare in tutte le parti del paese l’attività industriale ed economica di cui sia suscettibile ». E in effetti: più di 400 chilometri di ferrovie e la testa già al problema di bucare le Alpi in modo da raccordarsi alla Francia, perché gli austriaci continuavano a praticare la vecchia idea di Metternich di tener fuori i piemontesi dai grandi traffici continentali, adesso oltre a Marsiglia e a Trieste c’era da rintuzzare anche Amburgo, ormai secondo porto europeo dopo Londra. Quindi: convenzione con Laffitte per la costituzione della compagnia Vittorio Emanuele, incaricata di costruire nel Regno 250 chilometri di binari, convenzione con Rubattino per la linea di navigazione Cagliari-Tunisi, costituzione della Compagnia Transatlantica per i collegamenti con Nord e Sud America, dieci milioni di capitale sottoscritti a razzo da tutta la finanza ligure, la stessa che s’inabissava al momento della dichiarazione dei redditi. L’investimento su Genova, con la nascita dell’Ansaldo, era imponente. Buffa: « Quando il porto di Genova possederà il Dock e quasi tre braccia distese ai tre punti cardinali del mondo commerciale, la ferrovia del Luckmanier, e le due navigazioni a vapore d’America e d’Oriente, mal saprei comprendere qual forza umana potrebbe impedirgli di diventare il primo del Mediterraneo, ed uno fra i primi del mondo ».
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