???, La Stampa 14/7/2011, 14 luglio 2011
PIU’ ALTI E PIU’ SAZI. COSI’ SIAMO CAMBIATI DALL’UNITA’ AD OGGI
Con perfetta puntualità, un gruppo di studiosi competenti e motivati ha completato, in tempo per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità, una straordinaria ricerca sulle condizioni di vita degli italiani nell’ultimo secolo e mezzo. I dati su come gli italiani hanno vissuto, si sono nutriti o vestiti sono stati raccolti nel volume di Giovanni Vecchi In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi (Ed. Il Mulino, 522 pagg, 36 euro).
Sappiamo ora, sulla base di una documentazione minuziosa, non soltanto quanto alti eravamo e quanto lo siamo oggi (l’altezza media delle reclute era nel 1861 di un metro e 62 centimetri; nel 1961 aveva superato il metro e settanta); ma quanti erano un secolo e mezzo fa gli analfabeti (il 19 per cento della popolazione; oggi l’analfabetismo è pressoché scomparso), o quanto potevamo sperare di vivere: poco meno di 30 anni, ossia soltanto «una manciata di mesi in più del nostro antenato romano di due millenni prima». Oggi «possiamo essere orgogliosi nella nostra speranza di vita», che supera gli 80 anni e cresce di tre anni ogni decennio: siamo diventati uno dei popoli più longevi del mondo.
Sappiamo che «alla metà dell’Ottocento, garantirsi un pasto adeguato era un problema quotidiano e di difficile soluzione per una gran parte degli italiani». Oggi godiamo di una «disponibilità di un numero di calorie secondo solo a quello degli Stati Uniti», e il nostro problema è semmai la diffusione dell’obesità. L’Italia era «immersa a metà Ottocento in una lunga fase di declino e di stagnazione iniziata due secoli prima»; da allora ad oggi, il reddito medio degli italiani è cresciuto di quasi 3 volte, contro le 10 volte della media europea. Ma tutto questo sarebbe stato possibile se l’Italia fosse rimasta divisa? E’ valso la pena di unire l’Italia? Che sarebbe successo «se gli austriaci avessero vinto a Solferino e San Martino, se Garibaldi non fosse mai partito da Quarto», e l’Italia fosse rimasta divisa in setti piccoli Stati con sette piccole economie divise da frontiere e dogane e con mezzi di comunicazione del tutto inadeguati?
La risposta inevitabile è che «lo sviluppo della manifattura avrebbe trovato un ostacolo formidabile nella modesta dimensione del mercato interno», come nell’arretratezza delle vie di comunicazione, e che, anche nell’ipotesi che ci si decidesse a creare un’unione doganale, capace di condurre lentamente perfino a un’unità politica federale, «l’economia della Penisola non avrebbe avuto il successo che ha arriso all’Italia unita». Dunque, di unire l’Italia e gli italiani in un solo Stato è certamente «valsa la pena».
La conclusione a cui giungono gli autori della ricerca si fonda su una miriade di dati sulla statura degli italiani, sulla loro salute, sul loro reddito, sulla disuguaglianza della ricchezza e delle condizioni di vita, sulla povertà, sul costo della vita, sulla «vulnerabilità» dell’italiano medio. La parte forse più originale e innovativa di questa ricerca è il «lungo e minuzioso lavoro di indagine archivistica e bibliografica», che ha consentito di raccogliere, confrontare e rielaborare ben 20 mila bilanci di singole famiglie: «Veri e propri prospetti ragionieristici che registrano le spese e i redditi del nucleo familiare... comprendendo un arco di tempo che va dalla fondazione dello Stato unitario fino alle moderne indagini campionarie».
Chi, come me, ha superato l’ottantina, ricorda la precisione ragionieristica con cui una madre di famiglia, anche di una famiglia benestante, annotava ogni giorno, meno di mezzo secolo fa, ogni singola entrata e uscita del bilancio famigliare. «Nel contesto di questo volume - spiegano gli autori - le entrate e le spese delle famiglie sono l’indicatore monetario di benessere per eccellenza», l’indice sintetico che rivela come i benefici dello sviluppo economico si siano distribuiti fra la popolazione.
Insomma, ormai sappiamo tutto, dico tutto, su come gli italiani abbiano vissuto, dall’Unità ad oggi, «in ricchezza e in povertà». Ma sappiamo anche - i dati in proposito sono spietati - che non siamo riusciti a cancellare le differenze di reddito originali fra il Meridione e il Centro-Nord. Sappiamo, prendendo in considerazione la crescita improvvisamente rallentata nell’ultimo decennio, che se l’Italia ha raggiunto, in 150 anni, «una posizione di spicco, potrebbe nuovamente perderla», come già era accaduto fra Seicento e Settecento. Le previsioni da trarsi sul nostro futuro, in una preziosa prefazione di Giuliano Amato, come nell’introduzione dei curatori di tutta la ricerca, Nicola Rossi, Gianni Toniolo e Giovanni Vecchi, sono quindi assai prudenti. In sostanza, sono gli sviluppi più recenti quelli da prendere in considerazione, più di quanto lo sia il confronto di dati fra l’Italia d’oggi e l’Italia di 150 anni fa. Per citare un recente giudizio di Carlo Azeglio Ciampi, «non vi è più tempo da perdere e una nuova, costruttiva stagione di relazioni industriali può essere la prima molla per far ripartire la nostra economia». Occorre, per citare Mario Deaglio sulla Stampa di qualche settimana fa, «un generale clima di collaborazione, una sorta di consenso di fondo che ora manca nella società». Solo su queste basi potremo «salire sull’ultimo autobus che la storia mette a nostra disposizione!».
Ciò detto, il confronto prezioso e documentato che questa ricerca consente fra le condizioni di vita dell’Italia di un secolo e mezzo fa e quelle dell’Italia d’oggi non può non ispirare fiducia. «Le ragioni dello stare insieme sono più forti che mai», anche se l’orizzonte del nostro destino si è allargato «oggi si tratta di stare insieme nell’Europa e per l’Europa». Soltanto «una partecipazione sempre più stretta all’Europa unita... è in grado di ridare a tutti gli italiani, del Nord, del Centro e del Sud, la chance di partecipare a un futuro di benessere e di civiltà». La lettura di questo grande libro non è soltanto sempre interessante in molte parti persino divertente, conduce anche a guardare in modo giusto a quello che dobbiamo impegnarci a fare nei prossimi anni, con un impegno oggi sconosciuto, per essere all’altezza dei «padri della patria».