Francesco Piccolo, Il Sole 24 Ore 14/7/2011, 14 luglio 2011
CAOS CALMO: DIGRESSIONE SULL’IMMOBILITÀ - I
primi giorni in cui abbiamo affrontato la scrittura cinematografica di Caos calmo, sono stati piuttosto strani. Eravamo negli uffici della Fandango, insieme a Nanni Moretti e Laura Paolucci, e avevamo preparato una scaletta del romanzo, dettagliata, capitolo per capitolo. Era il modo per cominciare a discutere e a fare delle scelte. La trasposizione cinematografica di un romanzo è quasi sempre semplificatoria (apposta si chiama "riduzione"), perché alcuni valori principali della letteratura, come la digressione, sono degli ostacoli per il cinema, che nella maggior parte dei casi chiede racconto. Chiede di vedere un luogo, con dentro dei personaggi e questi personaggi si parlano. Attraverso questi atti, la storia deve andare avanti – e deve andare sempre avanti. Le riflessioni, le digressioni, per non parlare dei flussi di coscienza, sono uno spettro per la sceneggiatura.
Ora, Sandro Veronesi è un maestro delle digressioni. E Caos calmo, che probabilmente è il suo romanzo più bello, è un libro sull’immobilità. C’è uno piantato davanti alla scuola di sua figlia, per tenere a bada il lutto che li ha colpiti. Insomma, se ci si attenesse alle regole principali del cinema, è un romanzo che non può diventare film. Ma era proprio questa la sfida che ci piaceva: prendere un libro sull’immobilità e trasformarlo in un film sull’immobilità. E poiché il protagonista sarebbe stato Nanni Moretti, un altro obiettivo era fare in modo che Pietro Paladini, il personaggio, e Nanni Moretti, l’attore, trovassero un punto d’incontro.
Così, in quei primi giorni di settembre, c’eravamo messi al lavoro. E scrivere un film tratto da un libro ha bisogno di una regola: la spietatezza. Bisogna mettere da parte la passione che si ha per quel libro – tenerla accanto a vigilare, ma tenerla a bada – e prendere a fare un lavoro artigianale, chirurgico. Brutale. Questo ci serve, questo non ci serve, questi due personaggi possono diventare uno solo, da Milano lo portiamo a Roma, quella scena la spostiamo all’inizio. Questo è il lavoro che uno sceneggiatore fa per trasformare quella storia da un linguaggio a un altro linguaggio.
Era il nostro lavoro, lo facevamo con razionalità e spietatezza, anche soffrendo per qualche rinuncia. Ma sapevamo che per avvicinare il libro e il film dovevamo allontanarli prima di tutto, e poi ricucire gli strappi. Quindi, tutto bene.
Ma c’era un problema. In quei giorni, per una coincidenza di eventi del tutto casuale, Sandro Veronesi era a Roma, e quando è a Roma il posto dove lavora è un ufficetto della Fandango, di cui è socio nella parte editoriale. E questo posto dove Veronesi lavorava, era un paio di stanze più in là della nostra. Non solo: la stanza dove lavoravamo noi, era collegata alle altre da un lungo balcone. E quando si parlava al cellulare, il balcone era il luogo migliore perché – come si dice, e come fa fatica dire – c’era più "campo".
Quindi in quei giorni vivevamo una situazione grottesca, quasi comica, ma anche del tutto imbarazzante. Perché mentre dicevamo: questa scena non ci serve a niente, la storia del cane la tagliamo, quel personaggio non fa più il direttore ma diventa socio e non è più italiano ma francese – mentre dicevamo cose che l’autore del libro a sentirle sarebbe inorridito – l’autore del libro ogni tanto passava davanti a noi, lì fuori, parlando al telefono e ci guardava, ci sorrideva, e noi ci vergognavamo tanto. E allora subito dicevamo: però dai, aspettiamo a cambiare, riflettiamoci ancora.
E poi un giorno abbiamo deciso che era meglio andare a lavorare da un’altra parte, a casa di qualcuno di noi, fino a quando Veronesi non fosse tornato a casa sua, a Prato.