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 2011  luglio 14 Giovedì calendario

BOLLO IN MASCHERA (PATRIMONIALE) - C’è

un certo grado di schizofrenia nelle norme sulla tassazione degli investimenti (finanziari e non) delle famiglie previsti nella nuova manovra finanziaria. Da un lato - e questa è la notizia buona - si propone di abbandonare l’attuale sistema di tassazione dei redditi da investimento basata su una pluralità di aliquote che genera distorsioni di vario tipo per passare a un sistema di tassazione con un’aliquota unica intorno al 20% (seppure con deroghe importanti), come è stato già fatto per i redditi sugli immobili dati in affitto. Dall’altro - e questa è la cattiva notizia - il Governo introduce un’imposta fissa sull’esistenza di un conto di deposito titoli.

Nella versione non emendata di 120 euro per i depositi fino a 50mila euro e di 380 per quelli d’importo superiore. Nella nuova versione, sembra con una tassa da 34, 70, 240 e 680 euro per i redditi fino a 50mila, 150mila, 500mila e oltre 500mila nel 2011 e 2012; successivamente con tassa fino a 1.100 euro per quelli sopra i 500mila euro detenuti presso una banca (e tasse intermedie di 230 e 780 per i depositi più bassi). Questo vanifica l’intento molto importante che immagino si voglia raggiungere con il primo provvedimento: rendere la tassazione sui redditi da interesse neutrale ed evitare che essa interferisca sull’allocazione del risparmio.

La tassa fissa ha numerosi difetti. In primo luogo, com’è stato notato, è fortemente regressiva. Addirittura nella versione emendata la regressività dell’imposta è ancora più accentuata. E un minimo di giustizia distributiva dovrebbe garantire, se non la progressività, almeno la proporzionalità dell’imposta.

Ma sebbene sia questo l’aspetto che ha attratto l’attenzione e prodotto l’emendamento, esso non è l’unico difetto di questa imposta. La tassa fissa crea distorsioni che sarebbe bene evitare. In primo luogo, applicandosi solo ai titoli, genera forti incentivi a riallocare i propri investimenti verso forme di risparmio escluse dalla tassazione - ad esempio conti correnti e certificati di deposito. Crea per alcuni incentivi alla proliferazione dei dossier, ma la gestione di più dossier è inefficiente. Per altri crea incentivi a concentrare il conto titoli in una unica banca: chi possiede ricchezza investita per 500mila euro in una banca e per 500mila in un’altra risparmia (nella versione emendata) 1.100 euro mettendoli in un singolo conto - ma così ha messo tutte le uova nello stesso paniere.

La definizione di cosa sia un dossier titoli non è ovvia. Pare che si possa parlare di deposito titoli se questo contiene più di un prodotto finanziario - ad esempio un BTp e un’azione. Ma non se contiene un solo strumento. Se così è, si crea un incentivo a investire in una sola attività finanziaria per evitare l’imposta, ma così s’incoraggiano i risparmiatori a detenere portafogli non diversificati esponendoli maggiormente al rischio.

È anche facile immaginare che di qui a poco, varata l’imposta, gli intermediari inventeranno prodotti d’investimento a prova d’imposta. Insomma, se l’obiettivo che si vuole perseguire con questa imposta è ottenere gettito per raggiungere l’obiettivo di bilancio, le strategie che intermediari e risparmiatori metteranno in campo per eluderla non solo mineranno quell’obiettivo, ma ciò avverrà con una serie di distorsioni allocative che s’intendevano superare con l’imposta unica sulle rendite.

Si potrebbero però evitare queste conseguenze garantendo allo stesso tempo l’indubbia necessità di gettito: adottando una piccola imposta sulla ricchezza finanziaria, nessuna componente esclusa. Lo stock di attività finanziarie detenute dalle famiglie ai valori di mercato è intorno a 3.600 miliardi; un’imposta dello 0,22% genera lo stesso gettito che ci si attende dalla tassa sui depositi titoli. Ma non è regressiva - una persona con 10mila euro di attività finanziarie pagherebbe 22 euro (anziché 34) e una con 1 milione ne pagherebbe 2.200 (il doppio dei 1.100 previsti a regime).

Poiché si applica a tutte le componenti della ricchezza finanziaria, sarebbe difficile eluderla, si minimizzano le distorsioni e si ha maggior certezza del gettito. Se si vuole ulteriormente accrescere la progressività, si possono esentare le ricchezze sotto, poniamo 10mila euro. Dato che la distribuzione della ricchezza è estremamente concentrata, l’esenzione avrebbe effetti minimi sul gettito.

In aggiunta questa imposta potrebbe (e anzi dovrebbe) essere adottata solo in via transitoria con lo scopo specifico di recuperare gettito per fare fronte alla difficile situazione delle finanze pubbliche. Nel frattempo, si disegna il nuovo sistema di tassazione adottando un’aliquota comune e fissandola a un livello che lasci il gettito invariato una volta eliminata l’imposta sulla ricchezza.

Il ministro Tremonti ha tante volte asserito che la solidità del debito pubblico italiano risiede nell’elevata ricchezza finanziaria delle famiglie. L’unica ragione per cui questa affermazione ha senso è perché il Tesoro, in caso di necessità, può attingere a quella ricchezza, tassandola, e onorare così gli impegni assunti con i detentori del debito pubblico.

Questo è quanto l’imposta fissa inserita nella manovra fa, ma lo fa in modo maldestro. Con l’imposta proporzionale lo si può fare meglio, ma diventa inevitabile ammettere che è arrivato il momento di mettere le mani nei portafogli degli italiani.