Enrico Deaglio, Vanity Fair 13/7/2011, 13 luglio 2011
G8, QUELLO CHE NESSUNO ALLORA CAPI’
Se non fosse stato per una macchina fotografica digitale, un modem e un laptop, forse non si sarebbe mai saputo chi aveva ucciso Carlo Giuliani. Erano le 17 e 27 di venerdì 20 luglio 2001 e da alcune ore aumentavano di intensità gli scontri di piazza in occasione del G8 di Genova. Carlo Giuliani venne colpito in piazza Alimonda durante un attacco di manifestanti a un Land Rover Defender dei Carabinieri rimasto intrappolato; il suo cadavere rimase per più di mezz’ora sul selciato, circondato da un cordone di Carabinieri che impedivano a chiunque di avvicinarsi. Subito vennero messe in giro delle spiegazioni «ufficiose» per quel cadavere. Era stato colpito da un sasso scagliato da un altro manifestante, da un colpo di arma da fuoco sparato da chissà chi, da una pallottola di rimbalzo. La vittima veniva identificata in un «punkabbestia» di incerta nazionalità. C’era la concreta possibilità che la fine di Carlo Giuliani potesse rimanere avvolta nel mistero: non sarebbe stata la prima volta nella storia della gestione dell’ordine pubblico italiano.
Successe invece qualcosa di nuovo. Il fotografo Dylan Martinez, dell’agenzia Reuters, aveva scattato attraverso il potentissimo teleobiettivo della sua Nikon digitale, la foto destinata a cambiare la storia di quella giornata: un braccio esce dal Defender, una mano impugna una pistola, diretta verso la testa di un ragazzo esile, con passamontagna e canottiera, che avanza verso la camionetta reggendo a fatica un estintore: è Carlo Giuliani.
Martinez si accorge di aver inquadrato quella mano e la associa alle due detonazioni che ha sentito; trova un luogo appartato, riversa la foto sul computer, si collega con un modem e spedisce un’email alla Reuters. Venti minuti dopo la fotografia è sulle scrivanie dei giornali di tutto il mondo. Ed è così che il carabiniere di leva Mario Placanica, un ragazzo di nemmeno
vent’anni, viene incriminato per l’omicidio di Carlo Giuliani: era la pistola in sua dotazione ad aver sparato due colpi. Uno aveva colpito mortalmente Giuliani alla testa (l’imputazione di Placanica sarà archiviata e gli sarà riconosciuta la legittima difesa).
Il giorno dopo, sabato 21 luglio, le forze dell’ordine picchiarono senza remore migliaia di manifestanti: il più esteso pestaggio della storia della Repubblica italiana. Nella notte fecero irruzione nella scuola Diaz dove continuarono la mattanza, contro manifestanti che dormivano. Ragazzi e ragazze presi prigionieri e privati dei loro diritti civili furono trasportati nella caserma di Bolzaneto dove vennero sottoposti a insulti, pestaggi e torture.
La settimana seguente, l’Italia cominciò, confusamente, a rendersi conto del trauma del G8. Il settimanale Diario che aveva seguito la preparazione e lo svolgimento dell’evento di Genova, prese allora un’iniziativa «sperimentale». Chiese, attraverso il suo sito, a chiunque ne avesse, di inviare fotografie o testimonianze scritte di quanto era successo; oltre ogni previsione, foto e testi arrivarono a migliaia; il sito collassò più volte sotto il peso degli «allegati»; decine di persone allora vennero al giornale portando i loro cd; tantissime testimonianze visive purtroppo non poterono essere utilizzate perché troppo piccole o di troppo bassa risoluzione, ma – in un qualche modo – era nata una forma primordiale di social network; per la prima volta, di fronte a un fatto collettivo, la tecnologia dava a tutti la possibilità di comunicare la propria esperienza. E dire che eravamo in un’epoca geologica lontana mille anni da oggi: non esistevano gli smartphone, non esisteva YouTube (che farà il suo esordio
solo nel 2005) e nessuno avrebbe immaginato l’arrivo di Facebook e di Twitter. Il livello tecnologico di Genova nel 2001 permetteva solo gli scatti con macchine fotografiche digitali o riprese con piccole telecamere.
Diario usci con un numero speciale che utilizzò, per una migliore resa fotografica, carta patinata. Fu davvero un numero
storico, di quelli che ancora oggi vengono conservati: si videro poliziotti travestiti da manifestanti che agivano come agenti provocatori; venne individuato un picchiatore appartenente alla Guardia di Finanza, che per l’occasione si era vestito come un guerriero medievale ed era chiamato Robocop; decine di manifestanti ci mandarono i segni sulla pelle delle loro ferite, provocate da un tipo di manganello rinforzato, chiamato «tonfa»; dalla scuola Diaz arrivarono decine di fotografie che smentivano la versione della Polizia e mostravano il passaggio della mattanza notturna: sangue trascinato sui pavimenti, raggrumato sui termosifoni, ciuffi di capelli strappati; vennero identificati dei Black Bloc in azione indisturbata. In copertina
venne pubblicata una fotografia che riassumeva l’evento:
una donna con i capelli grigi, lei stessa ferita e sporca di sangue, cerca di alleviare le sofferenze di un ragazzo semisvenuto, lui davvero una maschera di sangue, versandogli acqua sulla testa da una bottiglietta di plastica. Venne rintracciata e identificata. Si chiama Marina Pellis Spaccini, medico pediatra di Trieste, venuta a Genova con la rete Lilliput (e come tutti i suoi pacifici componenti, picchiata dalla Polizia nella mattinata di sabato 21 luglio). Fa piacere sapere che la dottoressa venne indennizzata dal ministero degli Interni per
le ferite ingiustamente causate e che la fotografia servì alla sua causa.
Il G8 di Genova del 2001 è ormai diventato, a dieci anni di distanza, un fatto storico. Per la prima volta in Europa dopo
la fine della guerra, una grande città venne sigillata, le libertà civili vennero sospese, un accurato sistema di pestaggio e di gestione dei «prigionieri» venne messo in opera. Il tutto, in una grande democrazia e sotto l’occhio delle telecamere. Per la gioventù italiana, fu un trauma, una crisi di fiducia difficilmente recuperabile. Molti dei protagonisti di allora non ci sono più, o comunque non sono visibili: le Tute Bianche, Luca Casarini, la rete Lilliput, chi se li ricorda più?
Gli stessi Black Bloc sono rimasti un mistero: sono risorti ora in Val di Susa, o sono i loro figli? Ma anche i responsabili dell’ordine pubblico sono profondamente cambiati da quei giorni: il ministro degli Interni era Claudio Scajola, il capo della polizia Gianni di Gennaro, il vice premier Gianfranco Fini. Riguardando le foto ufficiali di quel G8, solo uno dei leader è rimasto al potere: via Bush, via Chirac, via Blair, via Schroeder; resta solo Silvio Berlusconi.
Ma Genova 2001 fu anche uno spartiacque per il mondo dell’informazione e, più in generale, per la democrazia dell’informazione. A Genova cominciò un altro modo di raccontare la verità, e si scoprì che era potenzialmente accessibile a tutti; quella fotografia digitale inviata con un computer dall’angolo di una strada svelò la dinamica di un omicidio, così come pezzetti di memoria scritta o visiva trovarono la via per essere, come si dice adesso, «condivisi». Il potere si ritrovò in difficoltà, di fronte a quelle testimonianze che non aveva previsto e di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
Ricordo che dopo la pubblicazione del nostro numero speciale, arrivò la polizia al giornale, per «sequestrare i negativi», e bisognò spiegare ai funzionari che non c’erano più «i negativi»: tutte quelle immagini erano qualcosa di impalpabile che viaggiava nell’aria, una specie di pulviscolo.
Oggi, dieci anni dopo, arrivano tramite i telefonini, immagini di ragazzi uccisi a Teheran, di cecchini in azione in Siria, di mercenari assoldati da Gheddafi, di scioperi in Cina. Sembra che il potere non riesca più a tener dietro, a oscurare, a vietare.
Qualche volta poi accade che, attraverso la nuova tecnologia, si vincano anche delle rivoluzioni. Recentemente ho visto una magnifica fotografia di un muro di Tunisi. Qualcuno aveva scritto: «Merci le peuple, merci Facebook».