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 2011  luglio 13 Mercoledì calendario

COM’ERA UNA VOLTA IL WEST


Non c’è da stupirsi se, a differenza del giallo o della fantascienza, il genere letterario del western sia stato surclassato dalla concorrenza cinematografica. È un po’ come quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile: quello con la pistola è un uomo morto. Il fucile sono le immagini dei paesaggi mozzafiato, delle gole e dei canyon, gli assalti alla diligenza, i cavalli al galoppo in una nuvola di polvere, i duelli con i primi piani sugli occhi di ghiaccio dei pistoleri, viene quasi da dire che il western sia l’essenza del cinema e ne riassuma tutte le tecniche. La letteratura al confronto appare lenta e goffa nella descrizione di quel mondo di avventure in scenari selvaggi.
Eppure nei racconti, testimonianze, ballate raccolte nel Grande libro del West americano (Cavallo di Ferro, pp. 336, euro 18,50) a cura di William Targ il western viene ripulito dalle incrostazioni spettacolari dei film di John Ford e Sergio Leone, con meno eroi solitari e duelli a mezzogiorno, ma un’atmosfera storicamente accurata e una ricostruzione filologica di cosa era la frontiera e i pionieri.
Si può sentire la mancanza dell’armonica a bocca di Ennio Morricone, ma si guadagna un West reale, non di facciata. Il libro infatti raccoglie racconti di studiosi del folklore americano come George Ezra Dane, o di scrittori che presero parte alle spedizioni al tempo della febbre dell’oro, come Jack London e Mark Twain. E sia che si narri di una scommessa di corsa delle pulci in un saloon di una città spuntata come un fungo vicino alle miniere d’oro come nel racconto di Dane, o l’estenuante caccia all’uomo di due ragazzi accompagnati da una guida indiana come nel bellissimo La pista dei soli di London, l’immediata vivezza, la sensazione di trovarsi là, usciti dal barbiere per andare a bere un whiskey nel saloon e giocare a poker dopo aver rivendicato a una compagnia appena fondata un filone d’oro, è un dono che solo la letteratura può offrire, specie quando è scritta da chi quei posti li ha conosciuti direttamente.

IL MANDRIANO FANTASMA

Inoltre in questi racconti il western offre aspetti inediti e più fantasiosi di quelli solitamente battuti dal cinema. Come nel racconto Il fantasma del recinto di Henry Yelvington, dove invece della classica città fantasma fa la sua comparsa un mandriano fantasma tutto di nero vestito, che anche da trapassato svolge ottimamente il suo lavoro. O ancora Una fanciulla ingenua della sierra di Bret Harte, quasi una parodia del duro eroe solitario che qui si riduce a fare da intermediario matrimoniale tra una bellezza locale e colui che lei crede essere un esattore delle tasse, mentre è un bandito in fuga. Scoperta la vera identità dello sposo, l’eroe si consola di essere stato raggirato con tipica saggezza western: «Gli toccherà passare il resto dei suoi giorni con quella piccola serpe!».
Ma forse ancora più dei racconti, le letture veramente avvincenti sono le testimonianze storiche, come il resoconto di Henry Howe delle cinque spedizioni nel West di John C. Fremont, tenente del corpo di ingegneria topografica degli Stati Uniti. In una di queste spedizioni incontriamo nientemeno che un giovane Christopher, meglio noto come Kit Carson. Quello vero, non l’amico di Tex Willer. Così lo descrive Howe: «Nonostante avesse vissuto appena trenta inverni, nessun nome era più conosciuto del suo nelle montagne tra lo Yellowstone e le Spanish Peaks, dal Missouri al Columbia River. Piccolo di statura, di costituzione esile, ma con muscoli di acciaio, e una carnagione chiara, a guardarlo non si sarebbe certo detto che quell’uomo mite fosse un campione di lotta indiana che aveva “levato i capelli” (i. e. fatto lo scalpo) a più pellerossa di chiunque altro nella regione occidentale».
E anche in quella spedizione Kit Carson, insieme al francese Godey, si coprirà di gloria, lanciandosi all’inseguimento di un gruppo di indiani che avevano rubato dei cavalli, affrontandoli sotto «una pioggia di frecce scoccate dai loro lunghi archi». Uno degli indiani, dopo essere stato colpito dai proiettili di Carson e Godey e scalpato, riesce ancora a sollevarsi in piedi «con il sangue che gli sgorgava dalla testa scorticata» e lanciare «un urlo orrendo», e allora i visi pallidi hanno almeno la pietà di finire le sue sofferenze.

LA DISFATTA DI CUSTER

Altrettanto avvincente è Custer di Frederic F. Van de Water, che racconta la tremenda disfatta del Settimo Cavalleggeri a Little Big Horn. “Figlio della Stella del Mattino” o “Capelli Gialli”, come lo chiamavano i Sioux, il generale George Armstrong Custer ci viene raccontato come il più arrogante ma anche sfortunato dei condottieri. Convinto, anche dalle comunicazioni dei suoi esploratori, che nella vallata di Big Horn non ci sia che un accampamento con un migliaio di indiani, li incalza a rotta di collo desideroso di coprirsi di gloria con poco meno di seicento uomini. Ne troverà più di quattromila, parte della più grande mobilitazione di indiani nel continente americano.

SCALPO RISPARMIATO

Custer verrà ritrovato completamente nudo appoggiato ai corpi di altri due soldati, il 27 giugno 1876, da James Bradley, tenente del Settimo Fanteria, con un foro di pallottola all’altezza del cuore e un altro alla tempia. Non presentava mutilazioni né gli era stato fatto lo scalpo perché i Sioux non avevano idea di chi fosse. “Capelli Gialli”, infatti, prima di partire nella spedizione che l’avrebbe consegnato alla storia, sebbene non nel modo sperato, si era tagliato i capelli corti. Chissà come ne avrà sofferto la sua vanità, ma era stato lungimirante.

Giordano Tedoldi