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 2011  luglio 13 Mercoledì calendario

PARIGI: SOLUZIONE PIÙ VICINA IN LIBIA

Si avvicina un mese speciale nel calendario musulmano, il Ramadan, dedicato al digiuno, alla disciplina, alla riflessione spirituale, e che nei tempi antichi prevedeva anche la sospensione, non sempre rispettata, delle diatribe e delle guerre. Travolti dalla bufera dei mercati e dai tagli ai bilanci, impauriti dalla prospettiva di dovere aumentare le tasse rischiando la rielezione, i leader occidentali cominciano a pensare di chiudere costosi fronti di guerra. Naturalmente senza perdere troppo la faccia: anche la tregua d’agosto forse può aiutare una "exit strategy" da conflitti snervanti e senza una rapida soluzione come appare quello libico.

L’esempio è venuto proprio dal presidente francese Nicolas Sarkozy che in Afghanistan, prospettando il ritiro entro il 2012 di un migliaio di uomini, ha pronunciato una di quelle piccole frasi così amate dai leader per strappare una citazione nei libri di storia: «Occorre - ha detto - saper chiudere una guerra», sorvolando acrobaticamente sul fatto che tre mesi fa ne ha aperta un’altra, forse non del tutto necessaria, in Libia.

Ma pure sul paludoso e insabbiato fronte libico i francesi sembrano diventati più possibilisti. Da alcuni giorni Parigi lancia messaggi al regime di Tripoli: si può arrivare a un tregua delle armi e a una discussione sul futuro del Paese ma soltanto se Gheddafi si fa da parte. I segnali si moltiplicano: «Una soluzione politica comincia a prendere forma», ha dichiarato il premier François Fillon mentre chiedeva ieri al Parlamento di votare il prolungamento della missione, poi autorizzato. E il ministro degli Esteri, Alain Juppé, ha confermato che si sta provando una via diversa dalla guerra: «Non è ancora un negoziato autentico ma ci sono contatti».

I libici rispondono, attraverso il primo ministro Baghdadi al Mahmoudi, che si può fare a patto che vengano interrotti i bombardamenti, condizione indispensabile per sedersi al tavolo delle trattative. Per la verità indicazioni concrete dal campo se ne vedono ancora poche: i gheddafiani continuano a martellare Misurata, caposaldo dei ribelli, mentre i rivoltosi non rinunciano, con le armi paracadutate dai francesi, all’idea di sbalzare dal potere Gheddafi.

Sarkozy, dopo avere chiesto ai suoi generali di portargli la testa del Colonnello per la festa del 14 luglio, sembra assai meno convinto di poter chiudere in fretta la partita libica come credeva fino a qualche tempo fa. Barack Obama, che ormai della Libia si era quasi dimenticato, si è detto favorevole «a una transizione pacifica e democratica, sempre che Gheddafi se ne vada». Gli italiani si infilano nelle crepe della determinazione degli alleati sostenendo con il ministro degli Esteri Frattini che la soluzione politica rimane la via di uscita dalla crisi. Per noi, di fatto cacciati dalla nostra ex colonia da una Francia desiderosa di rifarsi dalle amare sorprese subite con le rivolte arabe, questa è l’unica prospettiva di riprendere un’iniziativa.

È il momento quello del Ramadan in cui le tribù libiche, sfiancate dal caldo della Sirte e dalla drôle de guerre, sono forse più disponibili a discutere. Gheddafi si è mostrato un bersaglio, anche per la Nato, più resistente e coriaceo del previsto, gli insorti si sono rivelati meno tetragoni e convincenti di quanto volessero far credere alle cancellerie arabe e occidentali. Sulla tormentosa crisi della Libia soffia la macaia, uno scirocco soffocante e umido che è arrivato fino al Qai d’Orsay e sta per avvolgere Istanbul dove sul Corno d’Oro si riunisce venerdì il gruppo di Contatto.