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 2011  luglio 13 Mercoledì calendario

Ma che gusto c’è a fare le vacanze se non le racconti? - Il viaggio è un investimento di tempo, di energia e di soldi: saperlo raccontare significa imparare a viverlo meglio, senza annoiare e senza annoiarsi»

Ma che gusto c’è a fare le vacanze se non le racconti? - Il viaggio è un investimento di tempo, di energia e di soldi: saperlo raccontare significa imparare a viverlo meglio, senza annoiare e senza annoiarsi». Non si stupisce Claudio Visentin, docente di Storia del turismo all’Università della Svizzera italiana e presidente della «Scuola di viaggio» (www.scuoladelviaggio.it), del numero sempre più elevato di persone che cercano di apprendere tecniche per riuscire a narrare nel modo giusto le proprie vacanze. Due «Summer school» residenziali nelle prossime settimane tra la Sicilia e il Salento, decine di laboratori e work shop durante l’anno, e tante esperienze simili che nascono, testimoniano in merito un interesse sempre più alto. «Lo spettro è quello della serata a casa di amici a guardare le diapositive o l’infinito video della gita fuori porta - scherza Visentin -. L’obiettivo è offrire nuove opportunità di narrazione, che si trasferiscono in nuovi modi di fare turismo. Nel provare a raccontarlo spesso trovo il bandolo del viaggio: lo rivivo e lo faccio mio. Tutti viaggiano e tutti raccontano: è una sorta di intelligenza collettiva delle nuove generazioni». Scrittura e fotografia, ma non solo. Anche disegno e pittura, realizzazione di carnet di viaggi e allenamento al taccuino da viaggio, fino alle nuove frontiere dello «smart-traveler»: audio, video e possibilità di connettersi con il mondo in un attimo grazie ai social network. «I nuovi cellulari sono delle vere centrali mediatiche da viaggio- continua Visentin -. Con pochi centimetri e pochi tasti posso registrare suoni, catturare immagini, fare montaggi, entrando nel cuore della storia senza essere invadente e andando alla ricerca di quei dettagli e quelle sfumature che danno un senso ad un racconto». Ma prima di saperlo descrivere un viaggio bisogna saperlo vivere. Dando spazio alla fantasia, alla creatività e all’attivazione di tutti i sensi. E la «Scuola di viaggio» diventa occasione per sperimentare nuove forme di turismo divergente, come ripercorrere il percorso della Maratona di New York un giorno in cui non c’è la gara, farsi guidare in una città seguendo il percorso di un cane randagio, fotografare un luogo di villeggiatura puntando l’obiettivo solo sui turisti che lo frequentano, visitare un’isola siciliana al buio e nel cuore della notte, scoprire la storia di un paese bussando alle porte delle case e chiedendo di poter vedere gli album di famiglia. «Sono esercizi per capire che il turismo non ha regole o codici prestabiliti, ma che lo stesso luogo può essere percorso seguendo strade e linee nuove e inattese. Poi bisogna essere bravi a trasformare l’esperienza in qualcosa di interessante per chi la vivrà attraverso la nostra rappresentazione». E qui i consigli si sprecano: con la penna è necessario essere brevi, non voler realizzare una guida completa, ma fare delle scelte precise, privilegiando il dettaglio e il particolare, senza cadere nella smania da completezza. Inutile anche scattare migliaia di foto. Meglio poche, pensate e ragionate: dentro ogni inquadratura ci deve essere qualcosa che ci dà piacere. Chi non si accontenta delle immagini ma cerca anche i suoni può invece andare alla ricerca delle colonne sonore dei luoghi: suoni e rumori che fanno da sottofondo alla quotidianità. «Raccontare un viaggio è viaggiare due volte - chiude Visentin - È un’occasione di piacere, e per di più gratuita: buttare via questa occasione è un vero peccato». FEDERICO TADDIA *** “Non partite mai senza acquerelli” Stefano Faravelli, lei è il più famoso disegnatore italiano di carnet di viaggi e ha da poco pubblicato «Giappone. Taccuini dal mondo fluttuante» (De Agostini). Perché questa tecnica è così affascinante? «Il carnet è una multimedialità arcaica, un’esperienza di nuova creazione della realtà che io, dopo averla vissuta, cerco di trasmettere al lettore con la forza del disegno, della parola, di un oggetto. Con il senso e il gusto del bello e l’intensità della meraviglia». E tutto questo lo si può insegnare? «Quello che cerco di trasmettere e testimoniare è lo sviluppo dell’attenzione “stupita”: con i miei allievi si cammina, si suda, ci si tuffa nei fiumi, ci si sveglia all’alba perché il taccuino ti chiede di vivere la realtà e di sorprenderti di essa. Poi l’abilità che va sviluppata è proprio quella del portare su carta questa realtà vissuta: la sfida diventa allora trovare il verde proprio di quel fico d’india, scovare la giusta campionatura del colore del passaggio dal giallo al rosa di un sole che sorge, gioire nel trovare la giusta architettura di un fiore, di una conchiglia o anche di un sasso. Il taccuino ti permette di fare tutto questo, perché viaggia con te, perché ti accompagna, ti fa cogliere l’attimo ma ti permette anche di fermarti a pensare, riflettere e rielaborare». È concesso strappare una pagina che non piace in un carnet di viaggio? «Vale tutto: lo scarabocchio, il filo d’erba incollato per raccontare un prato, ma anche una foto che fa vedere cose sfuggite all’occhio. Non esistono regole, ma un’armonia: a volte basta la calligrafia per fare un taccuino. L’eleganza della scrittura può essere così totalizzante da non far sentire il bisogno delle immagini». Esiste il kit da viaggio ideale? «La stella polare per me rimane sempre l’acquerello: è rapido nella preparazione, si asciuga in fretta e ha un’ottima resa sulla carta. Ora si trovano in commercio pennelli giapponesi con una pompetta che contiene già l’acqua, e sono comodissimi. Il massimo rimangono però sempre i pennelli di pelo di martora: mi spiace dirlo perché sono un animalista convinto, ma anche in questo caso la natura batte di gran lunga quello che l’uomo tenta di inventare». [A. TAD.]