Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 13/7/2011, 13 luglio 2011
CICLISTI ARGONAUTI ENTRATI NEL MITO
M anca soltanto Lucien Georges Mazan al Tour de France che in questi giorni ha visto una serie di cadute disastrose e il ritiro di ciclisti che parevano eterni come Alexander Vinokourov, costretto ad alzare bandiera bianca da una frattura al femore. Dicono gli esperti che la colpa di tante cadute sia del numero spropositato di iscritti e dell’ancora più spropositato numero di motociclette e di auto al seguito che troppo spesso rischiano di travolgere i corridori. Come è capitato nella tappa da Issoire a Saint Flour, col ruzzolone di cinque ciclisti in fuga tra i quali Johnny Hoogerland, scagliato contro una rete di filo spinato. Il tutto con l’incubo che si ripetesse la sciagura accaduta ai primi di maggio al giro d’Italia, dove Wouter Weylandt si schiantò in discesa verso Rapallo. La dimensione del dolore, della fatica, dell’eroismo, della disfatta, della tragedia, è tra le cose che più hanno legato il ciclismo al sentimento popolare. La fragilità del campione è l’altra faccia della sua potenza. Fragilità e potenza, potenza e fragilità: è un secolo che i grandi giornalisti e i grandi scrittori al seguito delle più importanti corse a tappe trovano spunti formidabili in questo binomio. Per questo anche i non appassionati dovrebbero leggere Il giro d’Italia tra letteratura e giornalismo, dove lo storico Angelo Varni ha raccolto diversi saggi (tra i quali del nostro Aldo Grasso) dove vengono ricordate storie straordinarie. Come appunto quella di Lucien Georges Mazan, detto Petit Breton, il piccolo bretone dai baffi a manubrio che agli albori del ciclismo è il primo a vincere due Tour de France consecutivi e il primo a tagliare il traguardo di una Milano-Sanremo e nel 1909 si presenta al via del 1 ° giro d’Italia i cui partecipanti, scrive Claudio Gregori, «sono come gli Argonauti. La corsa è avventura pura. Un tuffo nel buio, nell’ignoto. Si parte alle 2.53 del 13 maggio 1909 sotto le stelle. Davanti alle ruote una tappa tremenda: 397 kilometri, da Milano a Bologna, passando per Padova. Non c’è l’asfalto. La strada è sterrata, con i solchi profondi lasciati dai carri. Quando piove si trasforma in palude impraticabile. Le biciclette pesano un’enormità: quella di Ganna è 15 chili. Hanno un solo rapporto e il pignone fisso: bisogna, quindi, pedalare anche in discesa. Non ci sono momenti di riposo. Le condizioni delle strade sono pazzesche» . Oltre la città «c’è il buio più completo» . Incrociano mandrie di mucche e sono costretti a fermarsi. Cadute continue. Il grande Petit-Breton cade e si rialza, cade e si rialza finché si schianta addosso a un carro di buoi. Prosegue lo stesso «guidando con una mano sola» . Solo a Padova, dopo il traguardo raggiunto con 31 minuti di ritardo, si ferma e va all’ospedale: il braccio è fratturato. Anche lui avrebbe meritato da Achille Campanile, come Learco Guerra, il paragone con il treno cantato da Giosuè Carducci: «Un bello e orribile — mostro si sferra, /copre gli oceani — corre la terra, /corrusco e fumido— come i vulcani, /i mondi supera— divora i piani».