Federico Fubini, Corriere della Sera 13/7/2011, 13 luglio 2011
DALLE POSTE AI PALAZZI, LA RICCHEZZA SEGRETA DELLO STATO
Senza le privatizzazioni lanciate vent’anni fa, oggi l’Italia sarebbe la Grecia. L’economista Edoardo Reviglio ha calcolato che la cessione di quote pubbliche in circa 30 imprese in quegli anni è stata provvidenziale: senza quelle entrate per circa 140 miliardi di euro, l’Italia sarebbe entrata nella crisi finanziaria globale nel 2007 con un debito pubblico oltre il 120%del Pil e oggi probabilmente viaggerebbe oltre il 140%: un livello pressoché impossibile da gestire. Quella stagione di coraggio, fra il ’ 92 e il 2000, ha costruito una polizza con cui il Paese aveva navigato la tempesta senza troppi patemi. Fino a questa settimana.
Ora la copertura è scaduta, mentre il debito è tornato esattamente dov’era vent’anni fa. Nel ’ 92, quando un direttore generale del Tesoro di nome Mario Draghi avviò le cessioni, il debito si stava avviando oltre quota 120%del Pil. Oggi anche, eppure fino a questo mercoledì le privatizzazioni sembravano radiate dal vocabolario della politica. Il governo le aveva rimosse dai suoi piani; l’opposizione ha fatto campagna (con successo) per impedire per referendum la cessione delle società pubbliche locali. Poco importa che lì ci sia un patrimonio da 100 miliardi di euro che la Repubblica italiana potrebbe mettere al lavoro per ridurre i suoi oneri. La Fondazione Enrico Mattei e Unioncamere stimano che le imprese pubbliche locali sono passate da 4.600 a 5.150 in quattro anni, fino a 7,5 partecipate in media per ente locale (comunità montane incluse). C’è chi pensa a farsi piccole holding territoriali in stile Iri, come il sindaco torinese del Pd Piero Fassino.
Pochi fin qui hanno pensato invece a un’altra opportunità: cedere anche solo un quinto di quelle quote, spesso gestite in perdita e con criteri clientelari, ridurrebbe il debito di un punto e mezzo di Pil (e abbasserebbe la febbre sui mercati).
Che dire poi delle partecipazioni dello Stato centrale? Dal 2000 è emerso un raro consenso bipartisan per rimuovere la questione. Eppure il governo potrebbe mettere sul mercato il 70%di Enav, di Sace, di Fintecna e di Poste Italiane raccogliendo almeno dieci miliardi e tenendo – se vuole – il controllo delle società. Del Poligrafico poi potrebbe disfarsi, intascando forse 500 milioni e senza perdere altro se non qualche poltrona per premiare gli amici. Il debito calerebbe ancora quasi di un altro punto e il segnale al mercato sarebbe forte e chiaro.
Ma il capitolo più ingombrante, dove le omissioni fin qui sono state più vistose, riguarda il demanio. Una stima a valore di mercato fatta da Kpmg per il ministero dell’Economia nel 2004 parla chiaro: gli immobili e le terre della Repubblica italiana valevano (sette anni fa) 1.815 miliardi. Oggi il debito pubblico è poco più alto, a 1.890 miliardi. Vero, monetizzare quel patrimonio non è semplice né immediato: andrebbe avviato un censimento, una sorta di mappatura di cosa appartiene a quale entità e come si potrebbe valorizzare ogni singolo bene. Vendere nel corso degli anni appena il 10%del demanio potrebbe ridurre del 10%del Pil il debito pubblico. Anche dare subito il segnale di volerlo fare avrebbe un valore. Fosse stato fatto dal duemila in poi, oggi l’Italia non sarebbe al centro del panico dei mercati. Invece nessuno dei vari governi degli ultimi 11 anni ha perseguito con forza il censimento del demanio che pure era stato annunciato. L’agenzia del Territorio in teoria è stata chiamata a farlo, eppure i suoi portavoce sostenevano appena tre settimane fa che un’operazione del genere non risulta in corso. Forse è meglio ricontrollare.