Salvatore Silvano Nigro, Domenica-Il Sole 24 Ore 10/7/2011, 10 luglio 2011
TE LA RISCOPRIAMO NOI L’AMERICA
Si erano incontrati a Parigi, tra i tavolini di un caffè, nell’estate del 1929. Erano coetanei e non lo sapevano. Avevano deciso di fare un po’ di strada insieme nella notte torrida. Guidò la passeggiata il pittore italoamericano Joseph Stella, ben piantato sotto un cappello a cono con falde nere e spioventi. L’altro, lo scrittore e compositore Bruno Barilli, stentava a seguirlo. Stella andava raccontando la sua America: il cielo metallico di New York, l’«inferno industriale» di Brooklyn; la «tristissima campagna», la malinconia, la «solitudine spaventevole». Vedeva Poe dappertutto. Esemplificò con un aneddoto. Si era trovato una sera nel deserto di neve di un quartiere anonimo di Brooklyn. Cercava un bar. All’improvviso qualcosa lo abbagliò: «Era una terribile vetrina delle pompe funebri che vomitava il fuoco bianco di cento dinamo su tutta la neve della strada. In mezzo alla vetrina c’era una bara di smalto bianco, foderata di seta bianca. Su quella bara un cartello As you like it che vuol dire, "come vi piace"». Concluse: «Questa è l’America dai pugni di ferro e dai nervi d’acciaio».
Sette anni prima, Stella aveva portato a termine il celebre polittico in cinque tele «New York Interpreted». Vi aveva raccontato la metropoli e il progresso tecnologico americano. Ma dentro le masse e le specchiature dei grattacieli, aveva impiantato scenari che richiamavano i profili merlati delle città medievali italiane e il paesaggio con campanile del paesino, Muro Lucano, nel quale era nato. Stella viveva in pieno la nostalgia dell’italiano in America.
Si emigrava con il proprio paese in tasca. Nel romanzo Giacchetta bianca, Melville aveva definito la nave «un pezzo di terra ferma reciso dalla massa del globo». L’immagine verrà rielaborata e resa emotiva dalla letteratura sulla Grande Emigrazione otto-novecentesca. A partire da Sull’Oceano di De Amicis, che della nave dei «figliuoli raminghi», dell’«Italia raminga» in un verso di Pascoli richiamato come eco da Martino Marazzi, aveva fatto un’isola galleggiante: «un frammento palpitante della... patria».
Quando Mario Soldati si imbarcò a Genova, nel novembre del 1929, per raggiungere l’America, si sentì un emigrante. Scrisse: «Navigare è lo strano spostamento, attraverso lo spazio, di un pezzo del paese da cui si parte». Sbarcò a New York con il consueto e nostalgico corredo di cartoline italiane in mano. Si vide davanti i grattacieli di Manhattan, che Berenson (memore di Joseph Stella) aveva assimilato alle belle torri del borgo medievale di San Gimignano. Guardò le cartoline. E l’Italia antica riconobbe, divenuta decrepita però, fosca e greve, come immersa in un sogno abitato da fantasmi e delitti, nel paesaggio urbano che i montagnosi grattacieli della prosperità mettevano in ombra. Gli sembrò che San Gimignano, Volterra, e Siena, spirassero al confronto, «vivacissima giovinezza». Anche per Soldati, come per Stella, Poe era «il più grande e vero poeta dell’America».
In America primo amore (che ora apre lo splendido Meridiano che Bruno Falcetto e Stefano Ghidinelli hanno dedicato ai diari e scritti di viaggio di Soldati), il regista scrittore raccontò la sua esperienza statunitense nella forma romanzesca di un tentativo di emigrazione assimilato alla storia di un amore deluso. In quegli anni (il libro uscì nel 1935) l’orgoglio intellettuale europeo (si pensi all’irritazione del Cecchi di America amara) si rappresentava l’America come una frangia dell’Europa che, distaccatasi e trasferitasi al di là dell’Oceano, aveva perso il suo "volume" culturale per farsi barbara negli spazi immensi del Nuovo Mondo.
Alberto Moravia era esplicito sull’argomento. Nel 1936 dettava da New York: «Scoprivo per la prima volta quel singolare fenomeno che è il trapiantamento della cultura europea in America: specie di anatomia eclettica di corpi disseccati ed esanimi... E in verità l’America si può chiamare giustamente l’erede dell’Europa, ma un erede che entrando in possesso di un palazzo pieno di quadri, di libri, di statue e di altre cose preziose, lo trasformi in un museo, continuando lui a vivere nella sua casetta». Se per Soldati i professori universitari erano in America lustrascarpe e barbieri mancati, più realisticamente erano per Moravia rinsecchitori di cultura: «specialisti e specializzati... il contrario giusto dell’uomo del Rinascimento che viveva il mondo come un tutto armonioso».
Nelle prefazioni alle ristampe di America primo amore, Soldati andò aggiornando il rapporto tra Europa e Stati Uniti. «Certamente, dopo la Seconda guerra mondiale, l’America è molto mutata», scrisse nel 1956; era uscita fuori dall’isolazionismo, aggiunse nel 1959: «Oggi non siamo più noi che andiamo in America. È piuttosto l’America che viene da noi. Viene in Europa, si sparge nel mondo, contraddice per sempre la teoria di Monroe, propugna con forza crescente la sua fede democratica, vuole comunicare agli altri la sua certezza in una palingenesi... non più un’America lontana», da raggiungere, ma un grande paese «che esce dai propri confini e dà prosperità e libertà a tutta la terra». Sono gli anni della guerra fredda. Moravia torna in America nel 1955, e scopre che gli Stati Uniti sono diventati il «Paese del futuro». Hanno infatti spinto «alle estreme conseguenze il problena massimo della civiltà moderna e al tempo stesso sembrano possedere energia sufficiente per fornire domani la soluzione».
Ma solo Guido Piovene negli anni 1950-1951 aveva percorso gli Stati Uniti tutti, in macchina, coast to coast, per raccontare nei particolari "vita" e "diversità" di un paese che dell’americanismo aveva fatto uno strumento per riflettere su se stesso; e del benessere un sistema che consentiva alle industrie di essere dei centri di produzione e insieme dei centri di indagine scientifica disinteressata in sintonia e accordo con le grandi università. Il libro uscì nel 1953, con un titolo da trattato, De America, e uno stile che Marazzi definisce "palladiano" per geometria e compostezza. Piovene riconosceva che il destino dell’Europa era ormai legato a quello degli Stati Uniti. E si chiedeva, eventuale militarismo escluso, quale potesse essere la parte di civiltà americana che l’Italia potesse meglio assimilare.
Soldati era interessato all’argomento. Voleva aggiornare il suo racconto dell’America, senza però rinnegare America primo amore. Trovò un titolo: America, primo amore o Scoperta dell’America, cioè degli Stati Uniti nuovi. Ne discusse a lungo proprio con Moravia e con Piovene, che pensava di poter coinvolgere nel progetto. I tre, attratti dall’America e avendone avuta esperienza diretta, ora ne potevano raccontare un volto nuovo, diverso da quello che gli italiani avevano sempre immaginato. Soldati voleva realizzare un documentario. Scrisse la proposta, nel 1955, insieme al regista e critico cinematografico Antonio Marchi, amico di Pasolini, Bassani, Malerba e Antonioni, che a lungo aveva collaborato con Attilio Bertolucci. Il testo si trova a Bologna presso l’Istituto Storico Parri Emilia-Romagna.
È stato segnalato da un giovane studioso, Mirko Grasso, in un prezioso e documentatissimo libretto, Cinema primo amore. Storia del regista Antonio Marchi. Il documentario avrebbe dovuto realizzarlo la Cittadella Film di Parma. Non fu possibile, anche per l’ambizione e la spettacolarità dell’inchiesta che prevedeva spostamenti da un punto all’altro degli Stati Uniti per seguire le partite di rugby, i bagnanti nelle spiagge, gli studenti nei campus, le falciatrici e le trebbiatrici nelle ampie pianure del Sud Dakota, i giovani jazzisti ribelli, i boppers, i maestri del blues, gli usi e le abitudini della gente di colore, le bestie seguite fin dentro i "mostruosi" macelli, le «officine delle città atomiche dove il futuro è già cominciato». «Il film che proponiamo sarà per tanto – dichiarava il documento inedito – una nuova scoperta del l’America. E di un viaggio in un continente da "esplorare" dovrà avere tutto il fascino, con tutti gli imprevisti che un’esplorazione presenta. Lo spirito che animerà i realizzatori non dovrà essere diverso da quello che già ha portato a documentazioni cinematografiche in terre lontane, come l’Indocina, il Brasile, eccetera. Solo che qui non si tratterà di penetrare i misteri di sette buddiste o di addentrarsi in foreste vergini; si tratterà di un’esplorazione tanto più suggestiva in quanto, diversamente da altre imprese, essa si svolgerà in una terra giunta agli estremi limiti della civiltà. Le giungle d’asfalto e le foreste di grattacieli... dovranno apparire ai nostri occhi nella stessa luce suggestiva e irreale che circonda le creazioni di civiltà antiche e remote».
Fu un’occasione mancata, una delle tante.