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 2011  luglio 10 Domenica calendario

I FORZATI SPOSI

«Il matrimonio forzato rappresenta una vio­lazione dei diritti u­mani. Il matrimonio deve esse­re concluso soltanto con il libe­ro e pieno consenso dei futuri coniugi». È quanto si legge al­l’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti umani. Ep­pure in Gran Bretagna, Paese ri­conosciuto tra i più cultural­mente moderni al mondo, il matrimonio forzato è una realtà che coinvolge migliaia di donne, per la maggior parte minorenni.
Sono donne nate nel Re­gno Unito, ma hanno origini sudasiatiche e più della metà sono pakista­ne. Frequen­tano le scuole britanniche, ma a casa seguo­no un codice di vita dettato dal­le loro tradizioni. Sono perlo­più musulmane ma anche sikh, e non si presentano come un fe­nomeno marginale, perché le etnie a cui appartengono costi­tuiscono una considerevole percentuale della popolazione britannica. I pakistani che vi­vono nel Regno Unito, per e­sempio, sono più di un milio­ne.
Secondo un recente rapporto dell’Ocse, le cause principali dei matrimoni forzati sarebbero le tradizioni, la povertà e l’igno­ranza della legge. La legge in Gran Bretagna ne bandisce la pratica e condanna fino a due anni di reclusione chi lo orga­nizza o agevola, ma secondo molte vittime l’informazione su come tutelarsi non è così facil­mente accessibile e spesso, per paura, molte donne preferisco­no non chiedere aiuto. Temono violenze e ricatti da parte della famiglia, in molti casi temono per la propria vita. Non stupisce infatti che spesso i casi di ma­trimoni forzati siano legati ai delitti d’onore. Nel 2009 sono stati denunciati alla Fmu (For­ce Marriage Unit), un’unità spe­ciale del Ministero dell’interno, 1.682 casi di matrimoni forzati, l’86 per cento riguardanti don­ne, il 14 per cento uomini. Un anno dopo, i casi sono saliti a 1.735, di cui più della metà coinvolgevano donne pakista­ne e un terzo erano minorenni. Ma «la maggior parte dei ma­trimoni forzati in Gran Breta­gna – spiega Ja­svinder Sanghe­ra, dell’ente di carità Karma Nirvana – non viene a cono­scenza della po­lizia. Non è in­fatti irrealistico parlare di alme­no diecimila ca­si l’anno». An­che per la ricer­catrice Nazia Khanum i numeri superano di gran lunga quelli ufficiali: «Sfor­tunatamente, è impossibile quantificare i casi. In genere le vittime non si rivolgono alla po­lizia, perché hanno paura di pe­nalizzare i propri genitori. Ma sono molto infelici. Spesso re­gistriamo fenomeni di auto­mutilazione, e non c’è da sor­prendersi del fatto che molti suicidi siano collegati a queste circostanze».
Qualche settimana fa, una vit­tima di 15 anni ha messo in di­scussione l’impegno del gover­no a combattere il problema af­fermando alla Bbc che «la scuo­la non fa abbastanza per aiuta­re le persone come me». La ra­gazza, portata dal padre in Paki­stan dove l’attendeva un matri­monio con un uomo di 35 anni, è riuscita a scappare due giorni prima della cerimonia. «Mio padre aveva stipulato un accor­do con il mio futuro marito. Mi avrebbe consegnata in matri­monio e accettato la somma di diecimila sterline (circa 12 mi­la euro). L’uomo, sposandomi, avrebbe ottenuto la cittadinan­za britannica. Mio padre mi ha praticamente venduta».
La vittima, che poi è stata ri­consegnata dalle autorità alla madre in Gran Bretagna, fre­quenta una scuola in prevalen­za frequentata da studenti a­siatici, ma sostiene che nessu­no l’ha mai informata dei suoi diritti e delle possibilità per per­sone come lei. «Non ho ricevu­to alcun appoggio dalla scuola, mi sono sempre sentita sola». Ogni scuola secondaria in In­ghilterra e Galles ha l’obbligo di informare i suoi studenti della realtà del matrimonio forzato e di riportare alle autorità casi so­spetti, ma esistono dubbi che questo stia effettivamente ac­cadendo. È di questa opinione anche Jasvinder Sanghera, se­condo la quale il Ministero del­la pubblica istruzione dovrebbe inserire il matrimonio forzato nei programmi di studio, «per­ché i ragazzi devono sapere che possono essere aiutati; e come e dove chiedere aiuto. Abbiamo cercato di introdurre poster nel­le scuole, ma ci è stato impedi­to ». Jeremy Brown, direttore della Forced Marriage Unit, è invece convinto che il governo stia fa­cendo ’il possibile’: «Non co­nosco nessun altro Paese al mondo – ha detto in risposta al­la quindicenne – che faccia più della Gran Bretagna per impe­dire il matrimonio forzato». Se la pena massima per una per­sona colpevole di aver organiz­zato un matrimonio forzato è di due anni di reclusione, nessuno ancora in Gran Bretagna è sta­to incriminato con questa ac­cusa. «È vero che si può sempre fare di più – ha concluso Brow­ne – ma non è scritto da nessu­na parte che ci si debba occu­pare di questo problema. Ce ne occupiamo perché crediamo che sia giusto occuparcene».
In Gran Bretagna il tragico de­stino del matrimonio forzato colpisce soprattutto la comu­nità musulmana pakistana, ma anche sikh e bangladeshi. Il problema, così come quello dei delitti d’onore che riguarda le stesse comunità, è saltato par­ticolarmente alle cronache bri­tanniche negli ultimi anni dopo alcuni casi di donne rapite, e anche uccise, dai membri della famiglia. Nell’agosto del 2008 il caso di Humayra Abedin, un medico di 33 anni convinta dal padre a visitare la madre in Ban­gladesh mentre questo aveva organizzato un matrimonio, ha scatenato il dibattito che poi ha portato all’introduzione del Forced Marriage Act. Al suo ar­rivo a Dhaka, la donna era sta­ta sequestrata dai membri del­la famiglia e chiusa in una stan­za per quattro mesi. In un mo­mento di distrazione dei suoi sequestratori, Abedin era riu­scita a mandare una mail a un’amica nel Regno Unito, e lei aveva allertato le autorità bri­tanniche. Abedin non era mi­norenne e nemmeno analfabe­ta quando era stata rapita dal padre. Aveva una laurea, un dottorato e svolgeva la profes­sione di medico in Gran Breta­gna da dieci anni.