Morya Longo, Il Sole 24 Ore 10/7/2011, 10 luglio 2011
IL RISCHIO-PAESE PREVALE SUI CONTI IN REGOLA
Deutsche Bank è zavorrata dai titoli "tossici": ne ha in pancia una montagna pari al 134% del patrimonio netto. UniCredit, invece, non ha alcun problema su questo fronte: il peso dei titoli tossici in bilancio è cinque volte inferiore. Deutsche Bank è molto "sbilanciata", perché ha tuttora una leva finanziaria (rapporto tra attivi e patrimonio) di 54 volte. UniCredit lo è invece molto meno: la sua "leva" è meno della metà. Deutsche Bank ha coefficienti patrimoniali buoni: il Core Tier 1 nel 2010 è all’8,7%. UniCredit, però, a marzo 2011 la batte: 9,1%. L’istituto italiano ha molti più crediti in sofferenza, ma altri particolari nei – sul fronte della solidità – non ne ha. Eppure sui mercati finanziari è considerato due volte e mezza più a rischio del suo concorrente tedesco. Chi si vuole assicurare contro il default di UniCredit, deve pagare più del doppio rispetto a chi si vuole coprire dal rischio Deutsche Bank. Motivo: la prima è italiana, la seconda tedesca. Gli investitori non guardano più i bilanci, ma il Paese d’origine. Questo è il problema. Che i banchieri non possono risolvere: non dipende da loro.
La solidità di bilancio
«Il Sole 24 Ore» è in grado di dimostrarlo. Prendendo i dati elaborati da R&S Mediobanca, è andato a confrontare la solidità patrimoniale di oltre venti banche italiane ed europee per vedere se ci sia un problema specifico nel nostro Paese. Quello che emerge – si veda la tabella sopra – è che gli istituti della Penisola hanno solo un elemento di debolezza maggiore: i crediti deteriorati. Nel 2010 il Banco Popolare ne aveva una montagna pari al 130% del patrimonio netto tangibile, Montepaschi al 107% e UniCredit all’81%. All’estero questo problema è più contenuto. E questo – giustamente – pesa sulle quotazioni degli istituti italiani.
Ma se si guardano altri indicatori, si scopre che le banche della Penisola sono più forti. Prendiamo la leva finanziaria, quell’indicatore di rischio che mostra quanto una banca è sbilanciata. Cioè quanti attivi ha, rispetto al patrimonio netto. Ebbene: da questo punto di vista le italiane sono granitiche rispetto a quelle estere. Quella più aggressiva, UniCredit, ha attivi 21 volte più grandi del patrimonio netto: nulla in confronto alle 54 volte di Deutsche Bank, alle 67 della belga Dexia, delle 50 della francese Credit Agricole. Gli istituti in Italia hanno anche molti meno titoli "tossici" in portafoglio: si pensi che Dexia ne ha talmente tanti che, a fine 2010, superavano di oltre sei volte il patrimonio netto tangibile. Se si guardano i coefficienti patrimoniali, gli istituti italiani sono poco sotto la media europea. Le banche svizzere e inglesi battono tutti, ma l’Italia – tranne il caso del Banco Popolare – non sfigura.
La percezione del mercato
Ma i mercati sembra che questi dati non li abbiano mai visti. Quello che importa, ora, è solo il Paese di provenienza. Purtroppo l’"italianità" sta diventando un vero cappio al collo degli istituti nostrani. Il motivo c’è. Dal momento che i BTp sono costretti ad offrire un rendimento di 244 punti base superiore a quello dei Bund tedeschi, le banche italiane – quando emettono obbligazioni – sono costrette a offrire ancora di più. Altrimenti nessun investitore sarebbe mai disposto a prestare loro denari. La spirale di vendite sui titoli di Stato sta dunque aumentando velocemente il costo della raccolta delle banche italiane.
I credit default swap degli istituti nostrani (le speciali polizze anti-insolvenza) quotano a livelli due-quattro volte maggiori rispetto a quelli dei gruppi europei. E i rendimenti delle loro obbligazioni seguono lo stesso passo. Questo ha due effetti negativi. Da un alto rende le banche italiane poco competitive. D’altro canto ridurrà gli utili. Gli analisti calcolano che ogni 10 punti base di aumento strutturale dello spread tra BTp e Bund, si "mangia" il 2-3% degli utili delle banche grandi. Questo pesa. E, nonostante la solidità di bilancio, rende la banche italiane più vulnerabili. Il virus, insomma, non sta dentro i bilanci. Ma fuori.