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 2011  luglio 09 Sabato calendario

IL CITY DECOLLA CON ETIHAD. LA SERIE A RESTA A TERRA

Solo un via vai di certi campioni, una volta, poteva smuovere nel calcio una simile pioggia di quattrini. In Italia, a raccontare di 168 milioni di euro per i «naming rights», c’è il rischio che qualcuno faccia confusione con un operazione di mercato e i diritti d’immagine di una stella: non in Inghilterra, però, dove il City dello sceicco Mansour ha appena sistemato il bottino in cassaforte, concedendo all’Etihad Airways la possibilità di griffare per i prossimi dieci anni l’impianto di casa, l’ormai ex City of Manchester Stadium.
Si tratta di un record, nella storia di questo genere di sponosorizzazioni. L’America conobbe il meccanismo con il basket già a partire dagli anni ‘70; in Germania, per tornare al calcio, la tendenza è consolidata: l’Allianz Arena (80 milioni in 30 anni al Bayern), il Veltins (5 milioni annui per lo Schalke) e il Signal Iduna Park (appena 40 milioni in otto stagioni al Borussia) sono solo i casi più eclatanti, in mezzo alla routine della Bundesliga. Nel 1997 il Bolton fu precursore d’Oltremanica, attraverso un patto totale con la Reebok. Dal titolo dello stadio, al main sponsor, fino al materiale tecnico: il club che si trasforma in un tutt’uno con il marchio.
Nel 2004 fece scalpore l’accordo tra l’Arsenal e la Fly Emirates (sempre di arabi si parla): la compagnia aerea si impegnò a versare 112 milioni per quindici anni, pur di veder campeggiare il proprio nome sul tempio londinese. All’epoca storsero il naso, i tifosi dei Gunners: «Sarebbe stata musica per le loro orecchie, se avessimo intitolato l’impianto a Herbert Chapman o perfino ad Arsène Wenger. Ma le cose sono cambiate e noi dobbiamo andare avanti», così l’allora presidente degli inglesi, Peter Hill-Wood, in un discorso tanto solenne da ricordare quelli di certi capi di Stato, di fronte a svolte epocali.
Il nuovo stadio della Juve, purtroppo, non è il segnale di una rivoluzione innescata nel nostro Paese con immancabile ritardo. Piuttosto, l’eccezione che conferma la regola: i bianconeri saranno il primo club in Italia a lasciare che sia un’azienda a mettere il suo nome accanto al campanello di casa. La targa oggi è ancora vuota, ma l’accordo con la Sportfive, la società a cui sono stati venduti i diritti in oggetto, è datato: 75 milioni per dodici anni, con il vincolo di evitare «conflitti» con sponsor e azionisti attuali. Il settore sportswear, per intenderci, non potrà essere sondato, visti i rapporti di npartnership con la Nike. L’8 settembre, data dell’inaugurazione, si avvicina, in corso Galileo Ferraris si augurano di poter conoscere entro quella data lo sponsor prescelto: la bontà dell’affare, in ogni caso, non sarà compromessa, visto che la somma pattuita è stata utile per ammortizzare i costi di costruzione (circa 120 milioni).
Gli storici del marketing, grazie alla Juventus, ricorderanno il 2011 come l’anno zero italiano in fatto di «naming rights». E come il primo del fair play finanziario. La mossa del City, oltre a innescare facili ragionamenti su strapotere economico e risvolti sul calciomercato, può essere letta anche in chiave di bilancio: non sarà che anche i Paperoni arabi si preparano ad affrontare i diktat di Platini?
Certi ragionamenti potrebbero accrescere l’amaro in bocca dei presidenti di serie A. Stadi di proprietà, sponsor, iniezioni di denaro, fair play finanziario: sono cerchi concentrici che i nostri non riescono (non possono?) mettere in collegamento. E pensare che la Uefa userà una certa tolleranza, alla lettura dei bilanci, nei confronti di quelle società che hanno investito su progetti legati agli impianti sportivi. E ai giovani. Ma questo è un altro tasto dolente.