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 2011  luglio 08 Venerdì calendario

L’INFERNO E IL PARADISO DELLE DONNE-ASSASSINE

Lo sguardo di Farida resta fisso sulla moquette, non ha mosso un muscolo raccontando la sua vita precedente quando era una moglie e una mamma afgana. Ma la risposta all’ultima domanda le sale dallo stomaco alle labbra come un pugno. I suoi occhi si sollevano e ti guardano: lo rifaresti? “No, ma solo perché ho dei figli”. Farida, 26 anni, una sera di due anni fa, ha aspettato che il marito si addormentasse nel letto e poi lo ha accoltellato a morte. Subito dopo ha chiamato la polizia. E ora sconta una pena di vent’anni nel carcere femminile di Herat. “La mia vita era un inferno. Mio marito si drogava, mi picchiava tanto forte che ogni volta credevo che mi avrebbe ucciso. Così ho dovuto farlo io. Si trattava della sua vita o della mia”. Data in sposa a 16 anni, a un ragazzo più grande di lei di 10, fin dall’inizio ci sono stati problemi. Ma erano soprattutto le botte che non riusciva a sopportare. Poi un giorno non ce l’ha fatta più. “Quel giorno avevamo litigato e le ho prese per l’ultima volta”, racconta Farida senza emozione. Il viso incorniciato nel velo, con una lunga veste blu. Accanto, l’ascolta il generale Sadiq, il direttore del carcere maschile e femminile di Herat: 2500 detenuti tra i quali 150 donne e 80 bambini, figli di detenute.
I reati delle donne sono sempre legati agli uomini. Chi li uccide, chi scappa, chi si droga e chi si prostituisce. Farida se non vivesse con il dolore di non poter stare con i suoi figli, due in orfanotrofio e uno con sua madre, si direbbe serena. Il carcere le piace. È un’oasi di pace che protegge le donne dalla violenza che ha dominato le loro vite, non perché cattive, ma perché donne. Non è una soluzione, ma per molte le sbarre sono meno pesanti del matrimonio.
REALIZZATO ed equipaggiato dal team italiano di ricostruzione provinciale (prt), 330 mila euro tra Ue e un 20% della Difesa italiana, ha tutto quello che le donne afgane desiderano: un ambiente pulito, niente botte e la possibilità di imparare. Ci sono corsi d’informatica, inglese, alfabetizzazione, sartoria e parrucchiera; una biblioteca, un campo di pallavolo, un asilo, una mensa, laboratori per tessere tappeti e vestiti tradizionali, il cui ricavato delle vendite va a loro. Quando usciranno, le ragazze avranno un mestiere.
Marzia è un’altra ragazza che non vuole andarsene. Non ha avuto un processo, non è stata neanche accusata di niente. Il generale non sa che fare. È scappata di casa 9 giorni fa perché suo marito la picchiava. Ha 19 anni, sposata da quando ne aveva 13, ora è incinta. “Sono una schiava non una moglie, vorrei divorziare, ma lui non vuole, i miei genitori non mi aiutano e così sono fuggita”. Il generale scuote la testa, le dice che chiamerà il marito, che gli parlerà lui, ma che lei deve tornare, perché le buone mogli non scappano. Marzia annuisce, ma non concorda. È bella Marzia ed è forte. “Vorrei studiare, andare a lavorare, vorrei essere un po’ felice. Lasciatemi stare qui un altro giorno, poi tornerò a casa, solo un altro giorno”. Il generale solleva le braccia rassegnato. Le ragazze intorno a lei sanno di cosa parla. Sono tutte colpevoli di essere donne. E, la vita è dura soprattutto nelle campagne, non c’è nessuno da cui andare, non ci sono centri antiviolenza come nelle città, si finisce in carcere per cercare salvezza o nel tunnel della droga. Molte spengono il loro inferno col fuoco. La percentuale di suicidi in Afghanistan è altissima. “Non ho una famiglia, tranne una sorella piccola da mantenere. Non trovavo lavoro, mi sono prostituita per 6 mesi per darle da mangiare”, racconta Sakin, che con i suoi tratti orientali ci dice che viene dalla lontana provincia di Bamyan. Le hanno dato un anno, ha già fatto sette mesi e ha imparato bene l’inglese. “Quando esco non sarò costretta a rifarlo, mia sorella che ora ha 14 anni, si è sposata, non voglio più saperne degli uomini. Sono cattivi, lo sono tutti. Qui si sta bene, imparo cose nuove, posso leggere. Non sapevo nulla dei libri prima di venire qui, è come viaggiare senza neanche doversi muovere. Dica grazie Italia per questo”.