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 2011  luglio 14 Giovedì calendario

MAL DI BANCA

Che medicina ci vuole per guarire dal mal di banca? Un potente antidolorifico, per gli istituti di credito, ci sarebbe e si chiama rialzo dei tassi d’interesse. Le banche italiane sono quelle più sensibili ai tassi, perché macinano gran parte degli utili con l’attività classica: più è stretta la forbice tra i tassi riconosciuti alla clientela e quelli pagati da cittadini e imprese per i prestiti, meno spazio c’è. I banchieri nostrani sperano che i tassi salgano e che la forbice s’allarghi. Al contempo, però, col denaro più caro aziende e persone faranno più fatica a ripagare i prestiti e i mutui, quindi accenderanno meno debiti o di entità inferiore. Uno scenario preoccupante, aggravato dal deterioramento della qualità del credito, fotografato dalla crescita delle cosiddette sofferenze (in pratica, quattrini quasi impossibili da rivedere). Quelle lorde sono salite a 95 miliardi di euro e quelle nette a 49,6 miliardi. E molti istituti impacchettano parte dei crediti deteriorati per cederli. Comincia Intesa Sanpaolo - il gruppo guidato da Corrado Passera ha messo in vendita un pacchetto da 3 miliardi di euro - e la seguiranno in tanti, da UniCredit a Montepaschi. Non sarà una passeggiata: i potenziali acquirenti esigono un bello sconto, ma il venditore non vuole mettere a bilancio minusvalenze pesanti. La manovra finanziaria disegnata dal governo non aiuta. L’Irap per le banche sale al 4,65 per cento e la stangata sui dossier titoli non invoglierà i risparmiatori a incrementare le compravendite, deprimendo così un margine d’intermediazione in costante calo. Dice Carlo Gentili di Nextam Partners: "Il sistema bancario subisce pesantemente la situazione Paese: nel momento in cui la differenza di rendimento tra i Btp decennali e gli equivalenti Bund tedeschi arriva a 230 "punti base" è inevitabile che anche le banche italiane ne paghino duramente le conseguenze. E se tra un anno ci sarà lo stesso differenziale tra Italia e Germania i problemi diventeranno enormi. Specie per le grandi banche, che subirebbero la concorrenza dei grossi istituti stranieri, oltre a vedersi svalutato il portafoglio composto prevalentemente di titoli di Stato italiani".
Nonostante gli effetti negativi che ricadono sulle banche per colpa del rischio paese percepito dagli investitori, si sarebbe potuta affrontare meglio la crisi del settore? Più di un economista ritiene di sì. L’industria bancaria è in declino un po’ in tutta Europa, ma basta un’occhiata a redditività delle banche e Borse per far insorgere il sospetto che il declino italiano possa rivelarsi più grave. In Piazza degli Affari i 12 principali gruppi quotati valgono oltre 11 miliardi di euro in meno di un anno fa e il calo supera i 58 miliardi se si va indietro di tre anni. Dopo la sventola di Moody’s, che ha messo sotto osservazione 16 banche italiane, le azioni del credito hanno preso un sonoro schiaffone, per poi riprendersi un po’, ma dando l’impressione di viaggiare sulle montagne russe. La sensazione di analisti e gestori - che sui titoli bancari vanno in ordine sparso - è che l’ottovolante continuerà. "Sulle banche entriamo e usciamo in modo tattico, perché il roe, il rapporto tra utile e capitale, delle banche italiane, un tempo in doppia cifra, ora viaggia tra il 3 e il 4 per cento e offre una speranza di redditività troppo modesta, alla luce della volatilità dei titoli, per pensare a scelte di lungo periodo", dice Patrizio Pazzaglia di Bank Insinger. Conferma Paul Vrouwes di Ing Investment Management: "Preferisco realtà con migliori prospettive di crescita dei profitti; meglio banche che operano a livello internazionale. Perché da voi la ripresa è inferiore alla media europea, il business è soprattutto domestico e la crescita dei volumi è bassa". Ribatte Giuliano Cesareo di Augustum Opus: "Il mercato ora guarda solo alla redditività e al rischio-Paese, però credo che le quotazioni siano troppo depresse e si riprenderanno. Alle agenzie di rating piace vincere facile: mettono dietro la lavagna le banche italiane dopo che hanno perso il 70 per cento; avrebbero dovuto lanciare l’allarme due anni fa".
Non si sentiva davvero il bisogno dell’allerta di Moody’s. Già c’erano stati la crisi greca con la paura del contagio per l’Italia, gli allarmi delle agenzie di rating sul debito tricolore, il ricorso a cospicui aumenti di capitale per rispettare i criteri di solidità patrimoniale richiesti a livello europeo. E pensare che poco più d’un mese fa la Banca dei regolamenti internazionali ha certificato che l’esposizione delle banche nei confronti della Grecia è di 4,1 miliardi di dollari, briciole al cospetto dei 34 miliardi dei tedeschi e dei 56,7 dei francesi. Purtroppo, l’ennesima dimostrazione dell’italica prudenza non basta più. "Perché ormai sono passati anni dallo choc finanziario e di tempo ce n’è stato per correre ai ripari, magari tagliando il negativo legame tra la politica e le banche popolari: non è possibile che il 4 per cento dei soci-dipendenti comandi una società quotata, come alla Popolare di Milano presieduta da Massimo Ponzellini", sostiene Marco Onado, economista ed ex commissario della Consob, aggiungendo: "Della riforma delle popolari si parla dal 1998. Il Parlamento assicurò che l’avrebbe fatta, ma non s’è mosso nulla. Quando i riformatori coincidono con i riformati, finisce come con Bertoldo: se scegli tu l’albero a cui impiccarti, opti per la pianta di prezzemolo". Onado ne ha anche per Siena: "Indebitandosi per l’aumento di capitale del Montepaschi, la Fondazione Mps manifesta un’ossessione per il controllo e si trasforma quasi in un hedge fund".
Ma, in attesa della ripresa, le banche che possono fare, oltre a varare ineludibili e spesso laboriosi aumenti di capitale - come quello da 2,15 miliardi del Montepaschi presieduto da Giuseppe Mussari - per rinforzare il patrimonio ma con il rischio di penalizzare le quotazioni? Per Massimiliano Colangelo di Accenture devono accelerare su innovazione e multicanalità: "Quello bancario era un business pigro. Si vendeva un prodotto - mutuo, fondo, obbligazione - e per anni buona parte della redditività arrivava dallo stock piazzato. In Italia, grazie alla storica fedeltà del cliente, alla sua non elevata cultura finanziaria e all’abitudine a frequentare le filiali, forse era più pigro che altrove. Ora però la rendita di posizione sta scemando e le banche hanno l’assoluta esigenza di vendere più servizi e meglio, a cominciare da Internet e dalle attività attraverso il telefonino, e migliorando la consulenza. In Spagna, dove interpretano in modo aggressivo la multicanalità, con filiali più piccole e molte consulenze a distanza, il rapporto tra costi è ricavi è al 42,2 per cento mentre in Italia sfiora il 60 per cento". Aggiunge Alberto Pietro Segafredo di Main First Bank: "La capillarità della rete è ormai insostenibile. Le banche lo sanno ma non lo esplicitano, perché se dicono che devono tagliare un terzo dei dipendenti comincia lo scontro con i sindacati. Servono piani decennali di snellimento". Nelle crisi del passato si affrontarono le difficoltà vendendo attività non redditizie o troppo rischiose, riducendo sportelli o personale. "A me sembra invece che lo scenario ipotizzato dai recenti piani industriali sia quello del "tutto come prima"", sottolinea Onado. L’eccessivo ottimismo dei programmi pubblicizzati dai banchieri è uno degli aspetti che convince meno la Borsa. Gli analisti li ritengono credibili in un contesto macroeconomico stabilizzato, cioè con un’economia che si rimette a camminare.
Se il Pil non riparte, le banche dovranno far di tutto per rendere meno salato il costo del denaro. "E siccome gli investitori istituzionali sconti non ne fanno, dovranno spingere sulla raccolta al dettaglio", prevede Francesco Leghissa di Copernico Sim. Sempre più clienti si vedranno così offrire obbligazioni emesse dalla stessa banca con rendimenti a scadenza uguali o inferiori a quelli dei titoli di Stato di uguale durata.
ha collaborato Elena Bonanni