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 2011  luglio 07 Giovedì calendario

«A MILANO ASCOLTO TUTTI, ANCHE IL PD, MA POI DECIDO IO». INTERVISTA A PISAPIA


Il benvenuto di Giuliano Pisapia, nuovo sindaco di Milano, ad Angelo Scola, nuovo arcivescovo di Milano, non è sembrato caloroso, e tantomeno sincero. «A me», risponde Pisapia, «è sembrato l’uno e l’altro. Abbiamo reso omaggio a una personalità di grande valore e auspicato una collaborazione proficua per la città».
Cito le sue parole: «La nomina del nuovo arcivescovo costituisce una linea di continuità con il suo predecessore, il cardinale Dionigi Tettamanzi». Lei sa che non è vero.
«Non vedo perché. Mi riferivo non solo a Tettamanzi, ma agli ultimi decenni di guida della Chiesa ambrosiana che hanno visto l’opera del cardinale Carlo Maria Martini. E non credo sinceramente che potrà essere una frattura con quelle esperienze».
La sua giunta manda messaggi di sfida alla nuova curia. Il 25 giugno da per la prima volta il patrocinio al Gay pride e l’assessore alle Politiche sodali, Pierfrancesco Majorino, va al corteo. La nomina di Scola doveva essere ufficializzata il 28. Il 29 lei e Majorino dichiarate: «Il registro delle unioni civili è solo il primo passo su una strada molto più lunga». Eccolo il vero benvenuto all’arcivescovo di Milano.
«Il registro delle unioni di fatto era nel mio programma e ne avevo discusso con la comunità cattolica. Quanto al Gay pride, è stato il primo patrocinio richiesto cui ci siamo trovati di fronte appena eletti. Non l’abbiamo certo calendarizzato noi...».
Concederlo non è sembrata semplicemente una scelta burocratica.
«Certo: è stata politica, e coerente. Avevamo chiesto i voti della città anche sul registro delle unioni civili, e la città ce li ha dati. Ma non vedo contraddizione tra il patrocinio e la partecipazione del sindaco alle tre beatificazioni avvenute il 26 giugno in piazza Duomo».
L’ultima cerimonia presieduta da Tettamanzi...
«Contiamo di partecipare, ovviamente, anche alla prima presieduta da Scola».
Proprio Scola, durante la sua lectio al Meeting di Rimini 2010, ha polemizzato contro «i moralisti, i più insidiosi tra i peccatori in quanto abusano del richiamo a comportamenti esemplari». Ai suoi elettori di Milano, primi tra tutti i cattolici democratici, potrebbero fischiare le orecchie.
«Primo: non posso interpretare le parole di Sua eminenza. Secondo: la mia campagna elettorale non ha mai affrontato questi temi».
Come no? Ci si è sdraiata sopra.
«E poi io non so a chi fossero davvero rivolte».
Gad Lemer, suo grande sponsor, vi ravvisò «una giustificazione dell’indulgenza verso il degrado dei comportamenti politici al potere». Insomma: si trattava, secondo lui, di un vergognoso attacco del cardinale a chi stava attaccando Silvio Berlusconi.
«Non devo imparare ora che i puri troveranno sempre qualcuno più puro di loro che li epura. Ma contestarlo a me è ridicolo».
Ha detto: «Da mio padre ho ereditato l’amore per il diritto e per i diritti». Non prova imbarazzo per le intercettazioni sparse a piene mani da anni, dove il diritto e i diritti individuali vengono fatti a pezzi?
«Che il moralista sia quello che pecca di più, su questo sono d’accordo. Capita troppo spesso di confondere giudizio politico, morale e perfino giudiziario. Per quanto riguarda me, distinguo. E critico fortemente chi non lo fa».
Cioè quattro quinti del suo elettorato?
«Lo nego».
E nove decimi dei suoi sponsor, la Repubblica in testa.
«Eviti di nominare la Repubblica, se non nomina dieci volte
il Giornale».
Nominiamolo. Ma resta l’impressione che lei abbia messo da parte il meglio di sé, vale a dire il suo garantismo, per dedicarsi a un movimentismo parolaio, solidaristico e moralistico. È così?
«Assurdo. Se ho vinto, è perché col mio garantismo ho portato a votare persone che, senza, non ci sarebbero andate».
Intende dire che la sua elezione ha avuto quel segno?
«Non l’unico, ma anche quello. Sono stato visto come un simbolo di autonomia e d’indipendenza, mi è stato riconosciuto un garantismo valido non soltanto per gli amici, e molte schede di delusi dalla sinistra sono arrivate anche per questo».
Credo che lei sbagli analisi, signor sindaco...
«Quanto al resto, ribadisco quello che ho detto nel libro In
attesa di giustizia, scritto insieme con Carlo Nordio: una corretta interpretazione della legge che c’è già impedirebbe lo spettacolo cui stiamo assistendo, dove s’identificano eventuali mancanze morali come reati».
Perché, nel giorno del suo insediamento, rifiutò quella domanda su Cesare Battisti?
«Ma andiamo! Dopo 18 anni di governo di centrodestra si
insedia una novità come quella, e mi fanno una domanda cosi
provocatoria, strumentale. Se me l’avessero fatta un attimo
prima o un attimo dopo la conferenza stampa, avrei risposto senza alcun problema. Lì no, e ho voluto farlo notare».
Che cos’avrebbe risposto?
«Come quel fior di garantista che è Giuliano Turone. Il giudizio su Cesare Battisti è stato giusto. Punto. L’estradizione dal Brasile doveva essere concessa. Punto. L’Italia ha fatto bene a ricorrere al tribunale internazionale. Punto. Quel tribunale valuterà se sono stati violati o no i trattati bilaterali. Punto. Dopodiché, lasciamo perdere».
No, non lasciamo perdere.
«Dopodiché, resto della mia idea, che tra l’altro è anche quella della Corte costituzionale, secondo cui le leggi d’emergenza dovevano valere finché c’era l’emergenza, non trascinarsi. Finita l’emergenza terrorismo, le pene, che allora venivano raddoppiate per il medesimo reato, avrebbero dovuto essere dimezzate e tornare come quelle comminate a tutti gli altri. Non è successo. Quando in galera si trovavano centinaia di ex terroristi, si è perso un treno. Ora non ce ne sono quasi più. Ma rimango ancora convinto che la decisione vada presa».
Lo ha notato bene Luca Sofri. Sul palco della sua vittoria, in piazza Duomo, c’erano tanti protagonisti degli anni 70. Eugenio Finardi, gli Stonny six, Lella Costa, Umberto Eco, Dario Fo, Gae Aulenti, Vittorio Gregotti, Roberto Vecchioni. «Ecco il ritorno dello spirito della Statale» si era inorgoglito al microfono Lerner. E Sofri gli ha risposto: «Benissimo, però non era quello che volevo vincesse». Morale: è passata una vecchia sinistra, a Milano, altro che novità.
«Non condivido. Tre giorni prima, al concerto in piazza Duca d’Aosta, 30 mila ventenni si erano riuniti per ascoltare musica e interventi politici».
E nessuno nega, infatti, che molti giovani l’abbiano appoggiata. Si dubita soltanto che abbiano vinto loro.
«Le racconto un episodio di gennaio. Mi incontrai al Magnolia, che è il locale giovanile più grande di Milano, con tutti i gestori di locali, tutti giovani. Mi posero tre condizioni per l’appoggio. Primo, totale autonomia. Secondo, non avrebbero utilizzato nessun manifesto concepito dal mio staff. Terzo, avrebbero detto ciò che volevano, utilizzando il linguaggio che volevano. Così è stato, e sono diventati i protagonisti della campagna. Mi sono fidato, sapendo che erano molto diversi da me. Se non l’avessi fatto, non sarebbero andati a votare».
Invece ci sono andati, e hanno fatto trionfare «lo spirito
della Statale».
«Non è vero».
Non ho letto interviste di giovani neoprotagonisti della politica milanese.
«Questo è vero. Il palcoscenico è stato dei più anziani».
È tuttora dei più anziani. I giovani sono sempre alla periferia dei nomi di chi conta.
«Non pretendo di convincerla. Ma bisogna sapere aspettare».
Intanto, lei cerca di tenere insieme i centri sodali Leoncavallo con Alessandro Profumo.
«In una competizione politica nazionale non sarebbe stato possibile. Avremmo perso. In una città, invece, non solo è stato possibile mobilitarli insieme, ma sarà possibile governarli».
Se darà più retta all’ex banchiere Profumo...
«O un po’ a me stesso, come hanno chiesto i milanesi».
Al Pd no di sicuro. Lo sta umiliando, dicono. Raccontano di litigi tra lei e Stefano Boeri con le urla che si sentono in Brianza...
«Mai un urlo, mai un litigio».
Resterebbe l’umiliazione.
«Contesto questo termine, alla radice».
Meglio parlare di ininfluenza, nominando il Pd?
«Senta: mi hanno scelto per la mia indipendenza. Riconosco che il Pd, dopo le primarie, è stato fondamentale per vincere. Ma so anche che un candidato privo di quella stracitata indipendenza non avrebbe vinto».
Quindi?
«Tengo conto delle posizioni di tutti, poi decido io. E ogni decisione scontenta qualcuno».
Venendo al merito e a Boeri?
«Non è vero che conta poco. È capodelegazione al Comune
e dispone di un assessorato importante. Se poi c’erano aspettative maggiori da parte sua e del Pd, non posso farci niente».
I punti di dissenso?
«La nomina a vicesindaco, lì c’era un’aspettativa, mi dispiace.
E l’Expo. Ma non voglio scendere in dettagli».
Così l’Expo la fa con Roberto Formigoni. Filate d’amore
e d’accordo, dicono i bene informati. Vero?
«Sull’Expo, non lo nego. La mia è stata una scelta precisa: farlo come da programma. Se non fossi andato con lui a Bruxelles, dove ci siamo presi una ramanzina mica male, era già pronto il cartellino rosso. Con quali conseguenze, lascio a lei immaginare».
L’asse Pisapia-Formigoni: chi l’avrebbe mai detto?
«La logica. C’è una buona intesa istituzionale, per ora. Se poi Formigoni resterà in Regione e non guarderà altrove come invece sembra, e non solo a me, forse qualche frizione potrà arrivare».
Per esempio?
«Sulla Città metropolitana».
Come farete con il Piano di governo del territorio? Avete
contestato quello di Letizia Moratti e siete ricorsi al tribunale. Se vi darà ragione, rischiate di rimanere senza Pgt per tre anni. Terrete la questione di principio?
«Il Piano della Moratti era inaccettabile. L’abbiamo contestato e adesso faremo come prevede la legge. Elimineremo il ricorso in tribunale e faremo le modifiche del caso su edilizia popolare, verde e quant’altro».
Non trova che nelle prime mosse del suo assessore Bruno Tabacci aleggi uno spirito di rivalsa verso un mondo che lo ha escluso?
«Tabacci è un assessore coi fiocchi. Immagino come ci saranno rimasti, dopo che ha scoperto in un minuto il buco di bilancio lasciato dalla giunta Moratti».
Sono 180 milioni, dite. Non aggiungete che era prevista la
copertura grazie alla vendita della Milano-Serravalle e di
altri asset non strategia. Confermate che li venderete, vero?
«Certo, ma non siamo affatto certi che possano coprire il buco.
I valori di vendita sul mercato fluttuano, sa? E non è stato carino lasciarci in questa situazione senza dircelo».
Lei nel 1966, a Firenze, fu un «angelo del fango». Non pare che i magnifici ragazzi di Milano sentano l’urgenza di andare a fare gli «angeli della monnezza» a Napoli.
«Sarebbe bellissimo, ma a Firenze ci fu un’emergenza: a Napoli diciamo che l’emergenza è stata meno improvvisa».
Legge ancora Topolino, per addormentarsi?
«E chi ha più tempo?».