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 2011  luglio 01 Venerdì calendario

DE GREGORI

& BRONDI. NELL’OSCURITA’ ABBIAMO SCOPERTO CHE CI SOMIGLIAMO -
Ecco, ci siamo, dopo averlo atteso a lungo finalmente è arrivato l’artista che sa come tradurre in musica e parole l’universo liquido dei ventenni, quelle cascate d’acqua pura e quei pantani fangosi: si chiama Vasco Brondi, ma si presenta al pubblico come Le luci della centrale elettrica. Fino a oggi ha pubblicato due album, Canzoni da spiaggia deturpata e il recente Per ora noi la chiameremo felicità.
Non vi aspettate canzoni da intonare a squarciagola in motorino o attorno a un falò estivo. Vasco viene dal punk, suonava il basso in un gruppo che pestava forte su poche note, dentro una baraonda minimale che prometteva di esprimere tutta la pena di un’età ferita. Ma di nascosto dagli amici punkettoni, ascoltava i cantautori italiani, ingentiliva l’orecchio e l’anima su quella malinconia fiorita. Ascoltava soprattutto Francesco De Gregori: «Avrò avuto nove o dieci anni quando ho sentito per la prima volta Adelante Adelante!, ed è stata una rivelazione. D’improvviso vedevo la musica. Le note erano come colori, immagini, paesaggi. Ascoltavo guardando».
Un filo invisibile si è teso tra il ragazzo di Ferrara e il Principe lontano, e su quel filo scivolavano parole nuove, misteriose, profonde. Perché questa è la grande novità di Vasco Brondi, è l’elogio dell’ombra, direbbe Borges, è la riscoperta di quell’oscurità dove brillano diamanti.
Dopo anni e anni di semplificazioni, di narrazioni elementari, di messaggi facili e lineari, pronti a essere inghiottiti e metabolizzati dal pubblico, Brondi ha intuito che il mondo interiore degli adolescenti sta tutto da un’altra parte, chiuso in una stanza, sigillato in una visione ancora indecifrata, protetto dal filo spinato dell’incomprensibilità. Sventoleremo le nostre radiografie per non fraintenderci/ ci disegneremo addosso dei giubbotti antiproiettile: così inizia Cara Catastrofe, la prima
canzone del nuovo cd. Che significa? Dove ci portano queste frasi, dove ci abbandonano? Di sicuro lontano dal senso comune, dalla pace di una costruzione che fila via dritta dall’inizio alla fine. Sono pensieri giovani, disarticolati, immagini
che si accostano come frammenti che alla fine non compongono mai un puzzle rasserenante.
Francesco De Gregori si è accorto de Le luci della centrale elettrica, probabilmente non gli dispiace che ci sia ancora qualcuno disposto a rischiare in nome di una verità frantumata in mille pezzi: «Perché il mondo è così, noi cerchiamo di forzarlo, di chiuderlo in una spiegazione, e invece il mondo è più grande e imprevedibile di ogni spiegazione» dice De Gregori: «questi sono stati gli anni delle fiction, delle scuole di scrittura creativa, dei metodi sicuri per mettere bene in fila le cose, i pensieri, i fatti, uno dietro l’altro fino a un finale che ci tranquillizzi. Ma tutta l’arte del Novecento, tutta la grande arte, non accetta di stringersi dentro la banalità di una spiegazione qualsiasi, in un meccanismo dove tutto è chiaro, collaudato, oliato. L’arte ha spesso a che fare con l’oscurità, con ombre che non si fanno illuminare da luci artificiali, con salti di senso, con strappi e folgorazioni inspiegabili».
E non è un caso, credo, che Vasco Brondi nel brano Per respingerti in mare, dopo una lunga serie di immagini sospese sul nulla, di parole che sdrucciolano fuori dalla strada che porta tranquilla a casa, canti e non c’è niente da capire, non c’è niente da capire. In un attimo precipitiamo indietro nel tempo, verso quella canzone di De Gregori che suonava quasi come un
manifesto. Per questo rifiuto di bloccare l’acqua che scorre nel cubetto di ghiaccio di una spiegazione, di un messaggio squadrato, De Gregori subì una sorta di processo pubblico da parte degli autonomi milanesi. Fu accusato di essere ermetico, dunque borghese, lontano dalla schiettezza elementare delle masse.
Ma Francesco De Gregori, «per brevità chiamato artista», non ha mai corteggiato l’insensatezza: ha cercato poeticamente un senso più ampio in cui le schegge ritrovino la compiutezza e la trasparenza della vetrata, affinché tutti noi possiamo vedere meglio. Brondi fa qualcosa di simile, trent’anni dopo. Canta la precarietà del vivere, una precarietà storica e sociale che sbuca di continuo dai suoi testi, grondanti di call center, di disoccupa-
ti, di licenziati, di anime rifiutate dal mondo del lavoro: ma non si tratta solo della mancanza di un posto fisso, è una precarietà più vasta e più intima allo stesso tempo, è «l’essere pericolante, che è il tratto forte dell’adolescenza, e forse di tutta la vita» dice Brondi.
Il disagio economico diventa metafora di un disagio romantico, assoluto: Mi urli che il tuo cuore non è un bilocale da trecento euro al mese: siamo in questo tempo con le spalle al muro, in quest’epoca di contratti a termine, di immigrazione e paura, di mutui e di rate, di speranze cieche e crolli fragorosi, ma – ed è questa la potenza di Brondi – siamo dentro a una condizione umana indissolubilmente intrecciata al fallimento. Questo tempo diventa metafora del Tempo. Questa crisi cresce nei versi fino ad alludere a un’altra Crisi, assoluta, struggente, inevitabile. Eppure nelle canzoni di Brondi, tutte uguali e tutte diverse, non c’è alcuna condanna: la vita è questa, sembra dire il nuovo Vasco, ci sfugge da ogni parte, ci taglia le mani, ci tormenta, eppure è tutto ciò che abbiamo, è più spina che rosa, ma vogliamo amarla.
Racconta De Gregori: «Brondi mi ha spedito una sua versione di Bene, una mia vecchia canzone che girava intorno a poche note: lui ne ha tolte un’altra me- tà, ne ha fatto una cosa particolare, tutta sua. Del resto anche io e Giorgio Lo Cascio, alla sua età, andavamo in sala di incisione per scompaginare le canzoni, sperimentare, sorprenderci. A vent’anni bisogna imparare a osare, a non accontentarsi, a non accomodarsi sulle cose più facili: da ragazzi ci si emoziona rischiando, ed è un modo di pensare che una volta appreso dura per sempre, anche quando i vent’anni sono passati».
Da qualche parte c’è sempre un ragazzo con una chitarra che canta il nostro smarrimento, e la sua voce ci piace, le sue parole strane ci riguardano, tutte le camerette d’Italia sembrano unirsi e aprirsi in un orizzonte corale. Quando eravamo giovani quel ragazzo era Francesco De Gregori e per fortuna lui c’è sempre, anche se ha meno capelli scrive canzoni ancora bellissime. E oggi quel ragazzo è Vasco Brondi, punk sentimentale, portavoce di una generazione che non vuole definizioni, cantautore scomposto, spezzato, purissimo, e ci piace ascoltarlo mentre andiamo in macchina nella sera, chissà dove.