Ettore Bianchi, ItaliaOggi 7/7/2011, 7 luglio 2011
L’ECONOMIA TURCA CRESCE DELL’11%
L’economia turca sta vivendo momenti di gloria: nel primo quadrimestre dell’anno si è verificata una crescita dell’11% rispetto allo stesso periodo del 2010. Il paese euroasiatico ha addirittura battuto la Cina, confermandosi il baricentro e il trascinatore di un’area geografica strategica.
Non nasconde la propria soddisfazione il primo ministro Recep Tayyip Erdogan, confermato recentemente al timone della nazione dopo le elezioni: abbiamo battuto Cina e Argentina e siamo diventati il numero uno al mondo. Pechino e Buenos Aires hanno messo a segno un incremento del pil pari rispettivamente al 9,6 e al 9,9%.
L’espansione della Turchia è in netto contrasto con l’andamento di gran parte dei confinanti europei, soprattutto la Grecia che si trova sull’orlo del baratro. Nei giorni scorsi i governanti di Atene hanno fatto riferimento proprio ai loro vicini, evocando la possibilità di uscire dal tunnel in cui il paese si è infilato.
Ciononostante gli investitori stranieri non stanno accorrendo per accaparrarsi gli asset turchi. Per ora stanno alla finestra, in attesa di capire che cosa farà il governo per prendere il controllo di un deficit corrente che ha ormai superato l’8% del prodotto interno lordo e continua a salire rapidamente. Un segnale di surriscaldamento, anche se l’inflazione non preoccupa. Il disavanzo commerciale è invece raddoppiato in maggio su base annua. Le importazioni hanno registrato un balzo del 42,6%, mentre l’export si è fermato a un +11,7%. Per l’economista Emre Alkin, attivo a Istanbul, il futuro del paese è luminoso, ma serve un nuovo modello di crescita e bisogna trovarlo immediatamente.
Finora lo sviluppo si è basato sul settore finanziario, sul retail e sulle costruzioni, guidati da una forte domanda e dal potenziamento del credito. Le banche sono solide, ma il modello del paese, trainato dai consumi, come in Spagna e Cina, non potrà reggere a lungo termine. La Turchia, secondo Alkin, deve abbassare i costi, importare meno e migliorare la catena del valore.
Uno dei segnali di nervosismo è dato dalla performance della borsa di Istanbul, che risulta una delle peggiori tra le economie emergenti: da inizio maggio ha lasciato sul terreno quasi dieci punti percentuali. Gli investitori internazionali hanno portato molti più soldi in Polonia, Germania, Russia e Cina. Gli investimenti diretti dall’estero sono ammontati l’anno scorso all’1,3% del pil rispetto al 2,1% di Varsavia, al 2,8% di Mosca e all’8,1% di Pechino.
Il boom dell’import si spiega con il fatto che la Turchia produce soltanto piccole quantità di petrolio e gas. Intanto i produttori manifatturieri si trovano a fronteggiare costi elevati rispetto ai concorrenti e preferiscono ricorrere a beni semifiniti importati piuttosto che produrre in proprio i componenti. L’85% dell’import è costituito da commodities e prodotti semifiniti. Il ministro del commercio estero, Zafer Caglayan, ha invitato l’industria dell’auto, in pieno boom, a non far arrivare da oltreconfine i motori e gli organi di trasmissione. Meglio farseli in casa.