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 2011  luglio 07 Giovedì calendario

IO, CONTRO MIO PADRE PER DARE GIUSTIZIA A MIA MAMMA"

La pentita Lea Garofalo è stata sciolta nell’acido e seppellita in un campo di San Fruttuoso, alla periferia di Milano
Sciolta nell’acido, via al processo
con il messaggio della figlia
GIOVANNA TRINCHELLA

Come un romanzo, una tragedia. Anche se la vita e la morte di una donna calabrese, una collaboratrice di giustizia rapita nel centro di Milano e sciolta nell’acido dal clan dell’ex marito, non sono l’opera di uno scrittore, ma cronaca giudiziaria.

Il primo atto di questa storia vede il pm di Milano Maurizio Tatangelo parlare ai giudici della I corte d’assise di Milano e dire: «A questo processo vi appassionerete, è una vicenda umana tragica». Di una tragicità particolare perché c’è un uomo che uccide la compagna con l’aiuto dei parenti e una figlia che si costituisce parte civile contro il padre, l’assassino di sua madre. «Se volessimo parafrasare il titolo di un romanzo - continua il pm - quella di Lea Garofalo è stata una morte annunciata, da anni». Forse da quando la donna, nel 1996, dopo l’arresto di Carlo Cosco, lo lascia. Di sicuro dal 2002 quando Lea, sfuggendo alla «mentalità mafiosa» in cui è cresciuta, decide di svelare tutto quello che sa di omicidi ed estorsioni. Fino al 2009 Lea e Denise fanno parte di un programma di protezione e vagano per l’Italia. Ma in aprile Lea, che aveva solo 37 anni, smette i panni della collaboratrice, forse perché sente il fiato sul collo di Cosco (che ha saputo dove si trova da un carabiniere), e dopo tredici anni cerca un contatto con lui. Cosco però, affiliato a una cosca della ’ndrangheta di Crotone «chiede l’autorizzazione a due capi-cosca per uccidere la Garofalo». Una donna che voleva «capire se poteva vivere senza la paura di morire».

Lea nel maggio 2009 viene aggredita e quasi soffocata da un finto tecnico che doveva riparare la lavatrice; viene salvata da Denise, che non era andata a scuola. La ragazza per l’accusa «è la teste fondamentale della vita vissuta dalla madre in questi anni» e sarà tra i primi testi della procura insieme al suo avvocato, Enza Rando. «Io sono un’orgogliosa testimone di giustizia - fa sapere Denise tramite il legale - perché non è facile costituirsi parte civile contro il proprio padre, ma è una scelta di libertà interiore per ripartire con la vita». E solo dal processo contro Carlo Cosco e altri cinque imputati, tra cui due fratelli di Cosco e l’ex fidanzato di Denise, la diciannovenne avrà «giustizia».

Lea scompare fra il 24 e 25 novembre 2009; le telecamere del comune di Milano riprendono all’Arco della pace i suoi ultimi istanti in vita, alle 18,37 sale su un’auto. Fu portata in un magazzino e, tra il 26 e il 28 novembre, sciolta in cinquanta litri di acido. Ieri hanno chiesto e ottenuto di entrare nel processo come parti civili anche le istituzioni: il Comune di Milano, perché danneggiato dalle infiltrazioni mafiose e contro la violenza sulle donne - la prima volta che accade nel capoluogo lombardo -, la Regione Calabria e la provincia di Crotone. L’accusa ha chiesto al tribunale di acquisire una lunga lista di testi - tra cui Denise, la zia Marisa e l’avvocato Rando che dopo un incontro a Firenze aveva sconsigliato a Lea, che aveva scritto almeno sei lettere alle istituzioni, di raggiungere Milano, dove si sentiva inspiegabilmente sicura perché pensava che la figlia «fosse la sua garanzia, la sua polizza assicurativa» sostiene il pm. Anche le difese hanno presentato le loro richieste: l’avvocato Daniel Sussaman detto Steinberg, legale di Carlo Cosco, vuole dimostrare che l’uomo «ha cercato di rintracciare la compagna e la figlia non per una volontà omicidiaria, ma solo perché voleva ritrovare la figlia che non vedeva dal 1996. Una necessità affettiva e nessuna contaminazione mafiosa». Nella gabbia i sei imputati, prima sorridenti e spavaldi, si attaccano alle sbarre, incrociano le braccia e, quando il pm comincia a parlare, guardano fisso i cronisti.