Goffredo Buccini, Corriere della Sera 7/7/2011, 7 luglio 2011
MAGLIANA, LE MILLE VITE DEL CASSIERE CHE VOLEVA VENDERE LA QUESTURA
Il tratto è sempre quello, da generone romano incanaglito. Una specie di Aldo Fabrizi prestato al crimine. Chi non ne conoscesse la storia, potrebbe sorridere solo a sentirgli dire, come appena un anno fa ai microfoni della Rai: «Un re in esilio, io? Mbè, sì, un po’ me ce sento» . Invece c’è poco da scherzare. Perché Enrico Nicoletti, questo vecchio mammasantissima segnato da acciacchi e ictus— e che tuttavia ancora riceveva i cronisti nella villa di Torre Gaia scampata ai cento e cento sequestri, e parlava e straparlava, alludendo e mentendo, negando e ammiccando in sapienti dosi— è uno di quei re che tornano sempre dall’esilio, uno di quei cattivi che ogni volta si danno per finiti e ogni volta costringono i cronisti di nera a scrivere: «Eccolo, è rimontato in sella» . Infatti, eccolo. Anzi, arieccolo. Come nel ’ 96, come nel 2003, come a ogni arresto, a ogni confisca di beni, a ogni nuovo giro di giostra. In questo strampalato luglio di revolverate e rievocazioni, mentre torna a svolazzare sui sampietrini romani lo spettro ormai impallidito della banda della Magliana, non poteva mancare l’uomo al quale Renatino De Pedis «lavava i calzini in cella» e alla bisogna faceva magari il caffè: con tale dedizione da meritarsi, lui, il capo delle paranze di assassini di Testaccio e Magliana, un prestito da 250 milioni di lirette «per aprirsi un ristorante a Trastevere» appena uscito di galera, «tutti restituiti con un mutuo» , parola di boss, provate un po’ a non credergli. Certo, 75 anni cominciano a sentirsi. Sicché di nuovo viene da sorridere a leggere l’ennesimo atto di accusa contro Nicoletti (riarrestato ieri dalla polizia mentre era, forse opportunamente, in ospedale): specie in quei passaggi nei quali si narra come la sua nuova banda di malacarne, millantatori e truffatori lavorasse anche nel ramo delle vendite fantasma di palazzi alle aste giudiziarie, avesse tentato invano di raggirare (tra i tanti) pure il povero Taricone e avesse poi trovato gonzi a cui piazzare la casa di Pendolino Cafù, una fetta della villa di Cragnotti e perfino quote di credito per pigliarsi a prezzi convenienti un pezzetto della Questura di Roma... Roba che la stangata della Fontana di Trevi di Totò pare il trailer d’un film neorealista. Ma, ancora una volta, il sorriso deve smorzarsi quando si scopre che Nicoletti e il suo sottopancia Alessio Monselles, pure lui in manette, si occupavano soprattutto di usura, riciclaggio e ricettazione con personaggi del calibro dei Senese e dei Casamonica (come dire camorra e mafia romana). E che promettevano, forse ancora bluffando, assunzioni «da qualche politico» . Im- possibile distinguere del tutto il falso dal vero, perché nella sua vita il Secco di Romanzo Criminale, il «cassiere della Magliana» di tanti atti d’accusa, politici in carne ed ossa ne ha conosciuti parecchi e perché alla fin fine è sempre stato questo: bucatini all’amatriciana con una spolveratina di stricnina al posto del formaggio. Bonario come un serpente a sonagli. «Vecchi nomi che tornano dalla scena e che dalla scena non sono mai scomparsi. Nicoletti è sempre stato un punto di riferimento nella malavita affaristica» , dice adesso Otello Lupacchini. Un tempo, questo magistrato che assestò ai bravi ragazzi della Magliana colpi duri e che poi ha raccontato il fenomeno nei suoi saggi, spiegò che, rispetto alla banda, «Nicoletti funzionava come una banca, svolgeva un’attività di depositi e prestiti e, attraverso operazioni di oculato reinvestimento, moltiplicava i capitali illeciti dell’organizzazione» . Entrò in gioco nell’ 81, quando fecero secco Mimmo Er Cravattaro, al secolo Domenico Balducci, usuraio, palazzinaro e primo consulente finanziario del gruppo. Ma Nicoletti fu altro da Mimmo, fu più d’un semplice sostituto, fu un nero banchiere d’affari che, amando la grandeur, s’era comprato dal Vicariato la villa di un banchiere autentico, Arturo Osio, disegnata negli anni Trenta da un allievo di Piacentini. Era quella la reggia dove il boss del quattrino alla vaccinara celebrava i suoi riti di successo, pregando nella cappelletta della villa e condividendo strategie con le paranze che insanguinavano Roma. Acqua santa e odore di zolfo, come in tutta la sua vita in fondo. «La Magliana? Manco sapevo che esisteva!» , ha ripetuto ancora un anno fa al microfono di Pino Scaccia. La scoperta reciproca, assicura lui, avvenne a Regina Coeli, «ero uno importante, uno ammirato, pure De Pedis mi rispettava» . I giudici non gli hanno creduto e gli hanno appioppato due condanne definitive, «ma nelle condanne non c’è mai stato scritto che ero il cassiere della banda della Magliana, mai avuto bisogno di loro» . Ci mancherebbe. Il sovrano in esilio della malavita romana era allora uno sicuro di potersela vedere con Andreotti. Ha raccontato a Gianluca Di Feo dell’Espresso che quando si trattò di costruire la seconda università a Roma, Franco Evangelisti si fece vivo per conto del Divo: «C’hanno un problema, aiutali tu» . Di Moro parla con pietà carica di ammiccamenti e messaggi in codice, «er professore così bono» . Dei Caltagirone con degnazione, «non li guardavo nemmeno» e giura che, volendo, poteva comprarsi il Messaggero dai Perrone, «ma non c’avevo tempo per i giornali» (... meno male). Si è sempre vantato d’andare a braccetto con i cardinaloni in quella strana Roma opaca che negli anni Ottanta fu terra di confine e di trattativa tra criminali comuni, mafiosi, fascisti, piduisti, agenti segreti infedeli. «La potenza non si acquisisce, è innata nelle persone per fare affari...» . Eccolo, insomma, il milieu di questo palazzinaro sbarcato tanti anni prima dal Frusinate, che racconta di avere costruito milioni di metri cubi, di avere fatto girare miliardi di lirette; «fortunato» alle aste giudiziarie finché la fortuna non gli s’è rovesciata contro e i giudici hanno cominciato a mettergli all’asta ville e palazzi che gli andavano confiscando: «giudici comunisti» , si capisce, decisi a colpire lui «con lo scudocrociato sempre nel cuore» . In questa nemesi, il vecchio banchiere della mala s’è visto sequestrare capitali per un migliaio di miliardi delle lire che furono: solo nel 2003, venticinque società, uno stabilimento cinematografico, alberghi, terreni, centri sportivi, capannoni industriali, appartamenti, palazzi, 43 macchine tra cui due Ferrari e cinque Rolls. In quel periodo era ancora così potente che le intercettazioni mostrarono uomini delle forze dell’ordine, medici e funzionari di banca pronti a dirgli di sì come quando i gruppi di fuoco sparavano a Roma. Nel frattempo i giudici gli hanno confiscato villa Osio, che adesso è la Casa del Jazz. All’ingresso, una targa con i nomi delle vittime di mafia: ultimo sfregio al sogno d’un bandito megalomane che forse stavolta sta per finire davvero.